Numero 4 del 2014
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Autore: a cura di Renato Terrosi
Articolo:
Mario Pinzauti: radiotelevisione e romanzi
Numerosi lettori si sono interessati al romanzo "Mi racconto una favola" da noi presentato su "Il Corriere dei Ciechi", scritto da Mario Pinzauti.
Pinzauti, però, non è solo uno scrittore. È stato ed è uomo della radio e della televisione. Questa intervista esclusiva farà meglio conoscere il personaggio che, in varie circostanze, è stato vicino all'Unione Italiana dei Ciechi e de gli Ipovedenti.
D: Vogliamo essere sbrigativi: perché non ti presenti tu stesso?
R: D'accordo. Ho 87 anni e 70 li ho trascorsi scrivendo. Ho cominciato a Firenze come apprendista cronista in un giornaluccio che non pagava neanche gli stipendi. Poi prima a Milano poi a Roma ho percorso una lunga gavetta che si è conclusa quando - negli anni Sessanta - con l'assunzione a "La Stampa" come notista politico e inviato speciale, sono approdato al grande giornalismo. Il resto è stato tutto in ascesa, con un finale di 15 anni alla Rai come direttore di un Giornale Radio e ripetute occasioni di incontro per interviste e inchieste con molti tra coloro che allora erano considerati i grandi del pianeta.
D: Ad esempio?
R: Due Presidenti della Repubblica italiana, Pertini e Cossiga; due Presidenti degli Usa, Carter e Reagan. Poi Papa Giovanni Paolo II, Deng Xiao Ping, leader della Cina post maoista, e tanti altri. Ed anche personaggi non altrettanto noti ma dai quali ho appreso la bellezza dell'impegno per le cause giuste, come ad esempio quello portato avanti per i diritti dei non vedenti da Tommaso Daniele, Luisa Bartolucci e altri dirigenti dell'Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti.
D: Ricordo ai lettori anche un tuo precedente romanzo, "Una cronaca del '47", i tuoi libri di saggistica e i molti premi da te ricevuti. E per concludere, rispondi per favore a questa domanda: che cosa vuoi dire ai lettori con "Mi racconto una favola"?
R: Voglio esortarli a rinunciare alle pillole per dormire e raccontarsi invece ogni sera una bella favola. Darà loro sonni tranquilli e sogni piacevoli.
La Festa della Luce
Aveva lo sguardo birbante, la testa sveglia e il cuore buono. Si chiamava Lampo e quel soprannome paesano la diceva lunga: avrebbe fatto strada. Per il momento, a metà degli anni Venti, con solo sedici primavere sulle spalle, passava diverse ore del giorno in fondo ad una cava di argilla. Era, peraltro, di sonno corto e alla notte gli piaceva fantasticare e leggere di tutto, a lume di candela. Era mio vicino di casa, a tiro di sasso. E, anche per questo mi chiamava spesso, specialmente nei giorni di festa e via per la campagna.
Qualche volta, Lampo, si tirava dietro una biciclettaccia che aveva fatto la Grande Guerra e cercava di caricarmici sopra. Si capisce al volo che io, più piccolo di età, obbedivo alle sue mattane e ascoltavo i suoi consigli. Buoni, in genere.
"Studia, studia - mi raccomandava - i tuoi qualche soldo ce l'hanno". E io studiavo, a lume di lampadina.
A questo punto devo dire, però, che al mio amico ronzava in testa un bel moscone: l'idea della luce elettrica in casa.
Diceva che per leggere gli andava bene anche la candela o il lume ad olio, ma poiché in paese quasi tutti si godevano la luce delle lampadine, lui, ogni tanto, s'imbestialiva e straparlava.
In sostanza, sosteneva che per quattro antenne e un centinaio di metri di filo non c'era proprio bisogno di tante complicazioni.
Una sera a casa mia (era venuto a portarmi un libro) s'inventò una mezza pagliacciata. Stavamo in cucina e già annottava, quando mia mamma girò l'interruttore e, ovviamente, la lampadina, che pendeva sul tavolo, si accese, diffondendo intorno una bella luce.
Lampo imbastì una specie di danza indiana con piccole grida e battute di mani. Poi, buttò là un arrivederci e uscì. Andò di corsa a casa sua ed espose in fretta e furia sul davanzale esterno di una finestra tutte le lanterne e le candele che era riuscito a rimediare. E le accese. Per diverse settimane, io in città e lui in paese, non ci vedemmo. Quando tornai, nemmeno ero sceso dal calesse di Gambesecche, l'unico fiaccheraio della zona, che Lampo mi si parò davanti. Di sicuro nessuno dei miei lo aveva avvertito, ma lui era lì. Senza la bicicletta pareva diverso e sicuramente era un po' eccitato. "Ti devo dire una cosa importante - buttò là senza preamboli - toglieranno tutti i pali di legno della corrente elettrica, li sostituiranno con alcuni tralicci di ferro, ci sarà pure un cartello con la scritta "Chi tocca i fili muore", faranno una cabina e, finalmente, anche noi avremo 'sta benedetta luce!".
E chiuse la bocca sbuffando, come se avesse spalato un quintale di argilla. Gli sorrisi compiaciuto e gli dissi di andare insieme verso casa. Poi, scaricata l'ansia, Lampo aggiunse che ci sarebbe stata una festa, col Podestà, i musicanti e tutto il resto. La festa ci fu. Nel tardo pomeriggio. Una festa povera come il paese. Nella piazzetta sterrata, i festoni di alloro e quattro bandierine di carta tricolore. Davanti al Monumento ai Caduti, col fantaccino del Piave che imbracciava il fucile come una pala, una pedana per le autorità. Sopra la testa del fantaccino una lanterna di ferro battuto e all'interno avevano messo una grossa lampadina, al momento spenta. Ben presto, appena il Podestà con il segretario e due musicanti avevano preso posto sulla pedana e una cinquantina di paesani vestiti meglio del solito si erano ammucchiati, il prete aveva benedetto tutti: monumento, autorità e paesani. I due musicanti strombazzarono alla meglio gli inni e il Podestà attaccò il suo discorso sulle opere realizzate e sulla accensione della luce all'intero paese. Poi, chissà perché, si impappinò e smise. Bisognava dare il via all'accensione della lanterna sopra la testa del fantoccino. Nessuno si mosse. Imbarazzo generale.
Finalmente dal gruppo dei festeggianti uscì proprio Lampo. Una risatina, una scrollata a Gambesecche, impalato vicino alla scala a pioli appoggiata al monumento, e un grido: "Evviva la corrente elettrica..! Accendete!". Il miracolo. Gambesecche salì sulla scala, arrivò alla lampadina, l'accese avvitandola. Era fatta. Nel povero paese, ora, tutti, avevano un piccolo sole. L'applauso fu grosso davvero. Lampo capì che poteva rientrare nel gruppo, però esitò un attimo e gridò: "Evviva anche Edison, Swan, Volta e tutti quelli che hanno lavorato per questa e per altre invenzioni! Per il bene della gente e per il progresso!". Era davvero gasato. Si accostò al monumento, salì sulla scaletta a pioli, aprì la lanterna, svitò la lampadina e la mostrò alla gente. "Basta - fece - è stata accesa troppo, ragazzi. Scotta. Si rovina. Tanto, ora, a casa abbiamo le nostre belle lampadine". Così finì la Festa della luce in un piccolo paese d'Italia, a metà degli anni Venti.
(dalla rivista Elementi del GSE)
Illustrazioni realizzate da Alessandro Buttà