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Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Corriere dei Ciechi

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Numero 6 del 2019

Titolo: ATTUALITÀ- Italiani si rimane

Autore: Katia Caravello


Articolo:
Beppe Severgnini ci ha fatto l'onore di venirci a trovare nella sede della Presidenza Nazionale UICI per fare una chiacchierata insieme sul suo ultimo libro, "Italiani si rimane", edito da Solferini Libri.
Sappiamo che ha avuto una bellissima carriera, a partire dalla carta stampata, alla radio, televisione, teatro. Avremmo tantissimi contenuti su cui discutere...
L'importante è avere qualcosa da dire. Essere con voi qui oggi, o a Otto e mezzo o al Corriere della Sera, o al New York Times o alla radio, assolutamente non cambia niente, l'importante è avere qualcosa da dire.
Perché ha deciso di scrivere quest'ultimo libro a 20 anni di distanza da "Italiani si diventa"?
Perché "Italiani si diventa" copriva l'infanzia e l'adolescenza, "Italiani si rimane" incomincia da lì, proprio da quando avevo 24 anni, anzi 22 anni, scrivo il mio primo articolo sul giornale di Cremona e sogno di fare il giornalista. Sono successe alcune cose molto belle, molto fortunate, questi articoli sono finiti in mano a Montanelli che mi ha mandato a chiamare. Sono arrivato al Giornale, mi sono trasferito per un periodo a Londra e in America. Sono tornato in Italia, ho lavorato a La Voce, al Corriere della Sera, l'Economist, il New York Times, ma tutto è cominciato dall'essere un ragazzo di Crema. Quello che voglio dire a chi ci sta leggendo è: non pensate che io abbia scritto questo libro perché voglio essere ammirato, ho scritto questo libro perché spero che la storia fortunata di un ragazzo italiano che ha coronato il suo sogno, sia anche utile e istruttiva. Ci sono molte lezioni. C'è una lezione di Montanelli che era un bravo capo. La prima volta che mi ha mandato all'estero, in Australia, avevo 26 anni, ho fatto i miei servizi, ho scritto le cose che dovevo scrivere, ma invece di tornare sono scappato con una ragazza svedese, ho mandato un telegramma con scritto "datemi per disperso". Allora... cosa fa un capo? Montanelli mi ha detto "Evitiamo di farlo di nuovo", ma mi ha anche detto "Forse sei un po' matto, ma per fare i giornalisti bene bisogna essere un po' matti". Anche nell'indulgenza di un capo c'è una lezione, anche nell'incoscienza coscienziosa, c'è una lezione. Tutti siamo stati capi prima o poi, anche solo di una persona sola, e tutti abbiamo avuto dei capi e secondo me è una bella lezione capire che i ragazzi son dei ragazzi e che qualche volta bisogna capirlo. A volte i capi hanno delle responsabilità che comprendono anche la comprensione. Ho solo messo il primo capitolo, non ho detto "ohi ragazzi, io ero l'allievo di Montanelli".
Cosa ha imparato da Montanelli, per cosa si sente di dovergli dire grazie?
Per i non. Le persone che mi ha insegnato a non frequentare. Ci sono delle persone che non vanno frequentate, dappertutto ma soprattutto in questa città, non perché è Roma, ma perché Roma è il centro della politica e di tante cose. Mi ha insegnato quali sono gli attacchi crudeli da non fare - soprattutto a chi è già in difficoltà o è sconfitto - le frasi da non dire, le parole da non usare, il secondo "che" in una frase da non usare mai.
Dopo il primo incontro con Montanelli è partita subito una collaborazione con il Giornale, ma nel '94 Montanelli lascia il Giornale e fonda un altro quotidiano, La Voce, che purtroppo ha avuto una vita breve e lei insieme anche ad altri collaboratori avete seguito Montanelli.
Non è così difficile fare una scelta del genere se il maestro, se il comandante della nave che ti ha tirato fuori dal mare dell'incertezza quando sei un ragazzo, ti dà la possibilità di navigare nel giornalismo che conta. Poi la nave è in difficoltà e ti dà un posto sulla sua scialuppa, tu ci vai e non discuti, pur sapendo che corri dei rischi.
Lei ha intitolato il capitolo che racconta questa parte della sua vita: un naufragio da giovani serve.
Beh, non mi ricordavo del titolo, ma ho scelto un'allegoria marinara perché la gente deve capire che le sconfitte arrivano e bisogna saperle prendere nel modo giusto, non farsi abbattere, trovare la forza di riprendersi, capendo gli errori commessi. Ci sono delle sconfitte istruttive. Più passano gli anni più diventa difficile reagire, ma una sconfitta professionale da giovane, quale un giornale che vive solo 13 mesi, è un naufragio che fa bene. Da giovane sai nuotare, vieni fuori dall'acqua, ti asciughi e riprendi.
Nel libro lei racconta il suo fallimento preferito durante la presentazione del suo primo libro, a Gardone; è un altro esempio di resilienza, cioè un evento che potenzialmente è un insuccesso e invece è riuscito a trasformarlo.
Lo raccontiamo molto brevemente, era il mio primo libro, Inglesi, in una giornata di pioggia a Gardone Riviera sul lago di Garda; c'erano 4 persone nel pubblico e io pensando di essere gentile sono andato a salutarli, nella mia testa pensavo di fare una bella presentazione almeno per quelle persone; poi ho scoperto che erano parenti dell'organizzatore che aveva pietà di me e li ha chiamati al telefono a casa. Mi hanno fatto talmente pena, loro e l'organizzatore, che ho deciso di impegnarmi. Con il mio microfono con il filo, mi spostavo sul lungo lago, fermavo le persone e, a chi diceva che piacevano i cani, raccontavo che il libro Inglesi si occupava di cani: i cani della regina, le corse dei levrieri… dicevo loro che, di fatto, il mio libro era un libro sui cani! Un ragazzo bresciano disse che gli interessava solo la musica, e io gli dissi non ti preoccupare, il mio libro è sui Rolling Stones, i Beatles, ecc. È stato tutto un giocare con le persone - che avevano chiaramente capito quello che stavo facendo - e alla fine ha smesso di piovere ed era tutto pieno. Tutti hanno preso il libro e mia moglie mi ha guardato in faccia e mi ha detto "Dopo quello che ti ho visto fare oggi non avrai mai nessun problema davanti a una presentazione di libri". Se avessi piagnucolato, fatto l'offeso e mi fossi chiuso in albergo sarebbe stata una sconfitta, così ho trasformato una difficoltà in una vittoria. Mi è andata anche bene.
È stato anche audace, è riuscito comunque ad ottenere un risultato positivo, trasformando qualcosa di negativo in qualcos'altro, si è messo in gioco, è una cosa importante se si vuole andare avanti.
A tutte le età e in tutte le professioni. Questo fatto accadeva quando avevo 33 anni, adesso ne ho quasi 30 in più, eppure mi comporterei allo stesso modo.
Nel suo libro c'è una parte dove parla di quelli che lei definisce "consigli in movimento", una serie di suggerimenti che dà alle nuove generazioni ma non solo. Ce ne sono due sui quali mi piace soffermarmi. Il primo riguarda la capacità di uno scrittore di stupirsi sempre, l'ha definita una manutenzione mentale.
Il viaggio è stato una componente molto importante della mia vita, io sono un giornalista itinerante, ho fatto il corrispondente, l'inviato, ancora adesso mi sposto spesso per vari motivi. Sono stati pochi i periodi nella mia vita in cui sono stato fermo, ad esempio tra il 2017 e il 2019 quando ero il Direttore di 7 del Corriere della Sera. I miei 40 anni di mestiere sono stati una professione itinerante. In questo libro, però, non ho raccontato i grandi viaggi, i grandi reportage, la fine del comunismo a Mosca nel '91 o magari l'insurrezione di Tienanmen. Io a maggio ero là e ricordo quella piazza piena. Non ho usato queste cose, che sono in altri libri, ho usato viaggi anche minori per spiegare cosa possiamo imparare dai viaggi. Imparare a stupirsi, a guardare, ad ascoltare, ad assaggiare e poi imparare a tornare. Racconto un piccolo episodio. Io e mia moglie siamo tornati a Mosca nella casa dove avevamo vissuto nel 91, tornare è un'arte anche quella. Di nuovo, ogni parte del libro è: caro lettore, cosa può esserti utile delle cose che ho visto? E non è un'esibizione dell'autore Severgnini, "ehi ragazzi guardate cosa ho fatto", no, è dire "io ho fatto anche cose piccole ma ho imparato molte cose". Nel giornalismo c'è anche il viaggio, ecco, che consigli posso darvi sul viaggio? Come viaggiare?
Il secondo consiglio sul quale vorrei fermarmi è "Imparare a guardare", legato ad un episodio che, quando l'ho letto, mi ha fatto sorridere ma che voglio raccontare perché credo che sia molto istruttivo, anche pensando ad altri contesti. Si tratta dell'aneddoto svoltosi nell'estate scorsa sul traghetto per la Sardegna.
È un episodio apparentemente minuscolo. All'arrivo in Sardegna, la mattina presto, quando eravamo tutti assonnati, si avvicina una coppia ed il marito mi dice con accento modenese "Ma che piacere vederla stamattina, io leggo sempre tutte le mattine il Caffè". Gli dico: "Guardi quello è Gramellini, non sono io". A quel punto si avvicina la signora che, nel tentativo di porre rimedio all'errore del marito, gli dice "ma cosa dici Fausto, lui è quello dell'Amaca che l'abbiamo letto tutti e poi Gli Sdraiati, un libro bellissimo". Le ho detto "No signora, quello è Michele Serra". Mi è piaciuto tantissimo, li ho tranquillizzati e abbiamo scherzato. Le nostre micro celebrità sono queste cose qui e un aneddoto del genere vuol dire impariamo noi che andiamo in tv o che scriviamo i libri, a prendere queste cose con un po' di serenità.
A me di questo racconto è piaciuto proprio il riferimento al concetto di micro celebrità, perché nella società di oggi ci si sente importanti solo perché si è andati al Grande Fratello.
Il mio suggerimento a queste tentazioni è prendere e andare all'estero. Basta passare il confine di 15 metri e la gente non sa chi sei; in Slovenia, in Austria o in Francia non sanno chi sei. Sembra una barzelletta però è tutto estremamente relativo.
Adesso ci spostiamo un po' dal libro ma neanche molto perché ne parla anche nel libro. Questo è un periodo in cui si parla tanto del ruolo dei giornalisti e della professione di giornalista, c'è chi dice che è superata perché ormai siamo tutti giornalisti perché ci sono i social, i blog e così via, lei cosa ne pensa?
Penso che sia il momento più difficile della nostra professione da sempre, la reinvenzione della scrittura. Credo che tutti possano scrivere, comunicare e parlare in un microfono, registrare un video. Letteralmente chiunque abbia un telefono, uno smartphone, ha in mano uno strumento per la scrittura e per la produzione di materiale radio-televisivo per la trasmissione di audio e video, che fino a 10-15 anni fa avevano solo i professionisti: potevi andare in radio, in televisione o pubblicare articoli se avevi un giornale, altrimenti le cose le tenevi per te e per i tuoi amici. Adesso tutti possono arrivare potenzialmente a tutti, questo ha messo in grandissima difficoltà il mondo dei giornali; molti dei giornalisti e degli scrittori che vivevano un po' di rendita perché avevano un monopolio, stavano comodissimi seduti e bastava che facessero poco, ma avere quel microfono, quel giornale, diventava sufficiente, ora non basta più, devi meritarti ogni giorno, quando parli ad un microfono o quando registri un audio libro, quando scrivi su un giornale, quando vai in televisione in un programma tuo o ospite, la qualifica di giornalista, scrittore, commentatore. Se uno dice "ok, quella cosa l'ho pensata anch'io ma lui me l'ha detta veramente bene, in maniera chiara, ha unito i puntini e mi ha aiutato a chiarirmi le idee", allora ho fatto il mio mestiere. Però alcuni sono spaventati: questa è una sfida quotidiana perché al giorno d'oggi parlare ad un microfono, registrare un video, scattare una fotografia o scrivere lo possono fare tutti in qualsiasi momento.
È un po' quasi scontata la risposta, ma lei crede che sia ancora necessario il ruolo del giornalista?
Sì, se il giornalista è onesto sì. Il mondo è sempre più complesso, i puntini aumentano e il lavoro di unire i puntini è sempre più indispensabile, ma devi essere veramente bravo, perché ci siamo dimenticati una cosa importante: tu devi dire "ehi io unisco i puntini per voi, il mio lavoro vale qualcosa? Volete comprare il mio libro? Volete accendere la televisione quando ci sono io? Volete comprare il Corriere della Sera? Volete comprare 7?". Tu non stai chiedendo solo l'approvazione della gente, ma stai chiedendo i soldi della gente in un momento in cui soldi non ce ne sono tantissimi in giro. Tu capisci che sfida è, però sì, è fondamentale, alcuni se ne dimenticano, pensano che sia un diritto che ci siano i giornalisti, il giornalismo non morirà mai. Credo che alcuni aspetti industriali e commerciali cambieranno molto, io non credo che ci saranno i giornali di carta tra 10-15 anni, o meglio ci saranno ma saranno ridotti a vere nicchie, per appassionati, probabilmente costeranno molto di più e chi vorrà concedersi il lusso di un giornale di carta potrà farlo, ne sono convinto, ma smetterà di essere un mezzo di comunicazione di massa, ne sono convintissimo.
La ringrazio per essere stato qui con noi ed invito tutti a leggere "Italiani si rimane".
Anch'io sono molto felice di questa conversazione.



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