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Kaleîdos

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Numero 23 del 2019

Titolo: Beniamino Barrese - Vi racconto mia madre Benedetta Barzini

Autore: Rosa Baldocci


Articolo:
(da «F» n. 49 del 2019)
Splendida, colta e anarchica, Benedetta, top model «per caso», non poteva che essere il mito di suo figlio Ben. Come recidere il cordone ombelicale? Girando insieme un docufilm bello come un dialogo tra una mamma e il suo bimbo ormai adulto. Il dietro le quinte ce lo svelano loro in quest'intervista a due voci
Una madre molto amata. Forse anche mitizzata. E un figlio trentenne, di formazione filosofo e poi fotografo e poi regista, che la insegue con la cinepresa, la tallona con un'urgenza e una passione che ci ricordano quanto ognuno di noi, in un certo momento della propria vita, abbia tentato di avvicinarsi alla vera natura del genitore con cui il legame era più forte. Padre o madre che fosse. Ponendo continue domande, sollecitandone risposte veritiere, provocandolo in un corpo a corpo senza fine.
La madre è Benedetta Barzini, negli Anni 60 ragazza ribelle di rara bellezza, classe ed eleganza, figlia poco amata di illustre famiglia, prima top model italiana a comparire allora sulla copertina di Vogue America, oggi 76enne solitaria, selvatica, femminista irriducibile, non abituata a scendere a compromessi col proprio vero sentire. Il figlio è Beniamino Barrese, ultimo di quattro, che con il docufilm «La scomparsa di mia madre» ci consegna un ritratto di questa donna senza filtri né retorica. Un ritratto intimo e appassionato allo stesso tempo. Benedetta ci viene incontro nella vecchiaia, i capelli indomiti e folti, gli occhi intensi, il corpo ancora magro da ex ragazza, le rughe profonde, il sorriso che illumina, stropicciata, arruffata, arrabbiata di fronte al mondo di oggi, ma poi simile a un'imperatrice antica mentre incede sulle passerelle delle ultime sfilate londinesi. Per strada, in bicicletta, dentro la sua casa-antro, con i piatti che non sa e non ha mai saputo cucinare. Alle prese col suo senso pratico che le impedisce di raccontarsi bugie, ma di vedere la vita così com'è, col desiderio di scomparire, con le amicizie del tempo che fu.
Molto divertente l'incontro con Lauren Hutton che, da brava americana, piedi sul tavolo, le ricorda che con le sfilate si può fare ancora una montagna di dollari.
Unico regista italiano entrato in competizione al Sundance Film Festival 2019, Beniamino si inserisce nella scia di quegli autori che per «sciogliere il nodo scorsoio dell'Edipo» mettono la mamma carismatica davanti all'obiettivo della cinepresa o nelle pagine di un libro e assumono simbolicamente il comando. L'ha fatto Nanni Moretti («Mia madre»), Pedro Almodóvar («Tutto su mia madre», ma anche «Dolor y Gloria»), Edoardo Ponti in «La vita davanti a sé» con protagonista mamma Sophia Loren, David Rieff nel libro «Senza consolazione» sulla scomparsa della genitrice Susan Sontag, e per ultimo Francesco Carrozzini che in «Franca: Chaos and Creation» intervista sua madre Franca Sozzani, direttrice di Vogue Italia. F ha parlato con Benedetta e Beniamino, detto Ben, per capire come è nato questo lavoro.
D. Il film fa venire in mente una lotta: Benedetta impreca, borbotta, chiede di mettere via la cinepresa. Ben la tallona anche dentro il bagno. Perché questa resistenza?
R. Benedetta: Odio l'immagine, l'uso che se ne fa, un mondo che non riconosco più. Ma poi mi sono arresa per l'impossibilità di dire no a un figlio. Per l'incapacità di procurare una ferita. E perché mi pareva il modo in cui finalmente potesse digerirmi, liberarsi di me. Mi sono anche vergognata. Mi si vede in casa, nel piccolo spazio che abito, si capisce che non mi pettino, che non mi vesto con attenzione, che non mi lavo così frequentemente. Però ho pensato: dai, facciamolo. Questo è un lavoro di separazione. Ben era troppo attaccato a me, quando da bambino aveva visto le mie foto mi aveva in qualche modo mitizzato.
R. Ben: Io ho tenuto duro perché volevo ridare dignità a mia madre, farne conoscere anche il pensiero, il modo di vedere la vita. Lei non è stata solo una modella famosa, ma una pensatrice, una filosofa, una femminista impegnata, capace di denunciare - perché ha tenuto corsi di Antropologia della moda all'università di Urbino e alla Naba - la schiavitù del linguaggio visivo a cui tutti siamo sottoposti, le donne in particolare.
D. Benedetta parla nel film di voler fare «un lavoro di separazione». Ci siete riusciti?
R. Benedetta: Credo di sì. Lo intuisco da qualche segnale. Dopo il primo giro nei festival adesso mi dice: «Mamma, al prossimo posso andare da solo». È diventato più sicuro di sé, si è messo alla prova e questo lo ha fatto crescere. Dopo tre anni di lavoro e mesi e mesi di montaggio, a furia di vedermi e rivedermi, avrà pur pensato «basta con mia madre, che palle!». L'amore per i figli esige il contrario di ciò che di solito avviene per un compagno o un'amicizia: bisogna lasciar andare, un concetto difficile per l'Occidente. E poi per i figli non si può fare nulla. Solo capire che sono persone diverse da noi.
R. Ben: Il distacco è averla considerata come una persona, non come mia madre. Averle attribuito un pensiero che volevo far conoscere. Ma è stato un lavoro lungo, tre anni più il tempo impiegato a cercare i finanziamenti perché questa volta mi sono detto: sono un regista e voglio poter pagare i miei collaboratori e me stesso.
D. Benedetta, lei parla continuamente di voler scomparire, ma sottolinea anche che non vuol dire morire. Che significa?
R. Benedetta: «Vuol dire concedersi di non essere più l'animale addomesticato che sono stata. Ho passato la vita a fare quello che dovevo: pagare le bollette, pensare al benessere dei figli, fare da mangiare... Voglio regalarmi il contrario di quello che ho conosciuto fino adesso. Andarsene in un posto senza telefono, né computer, né conto in banca. Camminare verso Oriente, vivere di baratti, tagliare i contatti con tutti. Per i figli un congedo senza cadavere. Certo che ci penso, ma siccome, come dico nel film, a volte non si ha il coraggio di farlo, o non si ha più la salute per metterlo in pratica, finisco per dirmi che morire e basta potrebbe essere una scelta più semplice.
R. Ben: La considero la sua utopia e un mezzo incubo. Mi preoccupo. Ma forse è l'idea guida della sua vita, in continuità con la malattia della sua giovinezza quando si rifiutava di mangiare per scomparire. Può decidere di vivere gli ultimi anni come le pare. E non è detto che un ospedale in una grande città sarebbe meglio visto come la nostra società tratta gli anziani.
D. Nel film si accenna alla sua infanzia in una famiglia anaffettiva, agli anni fastosi trascorsi a New York chiamata da Diana Vreeland e poi si racconta l'oggi, ma non si parla per esempio dei suoi amori, perché?
R. Benedetta: Questo non è un biopic, la biografia della mia vita, ma è un discorso tra me e mio figlio, una riflessione, un punto di vista su qualcosa che ci unisce e ci distanzia.
R. Ben: Sì, esattamente. E il punto focale è l'immagine: ciò che lei oggi, malgrado il suo passato, condanna e io esercito come mestiere. Una contraddizione, di cui non vengo a capo perché lei continua a ripetere che odia l'immagine. Anche la memoria. A un certo punto del film dice: «La memoria non serve ad andare avanti».
D. Se doveste dire ciò che amate e detestate di più di ognuno di voi?
R. Benedetta: La sua sensibilità e a volte il suo essere un capolavoro di ingenuità, ma questo è anche il suo bello.
R. Ben: La sua tenerezza e la sua testardaggine in certe cose.
All'inizio del film Ben scrive queste parole: «Ho passato la mia vita a fotografare e filmare mia madre senza sapere perché. È stata la mia prima modella, la mia preferita. Quando mi ha detto di aver deciso di andarsene e di non tornare mai più ho capito che non ero pronto a lasciarla andare». Alla fine del film tra l'immagine poetica, ma costruita, di Benedetta che parte su una barchetta su un mare blu con nuvole bianche all'orizzonte, e il suo gesto di chiudere l'obiettivo della macchina da presa, come pensate che finirà il film? Sul buio. Benedetta spegne la cinepresa sul nero. Sull'enigma che è la vita e sul rapporto tra madre e figlio non c'è immagine che possa gettare luce.
Rosa Baldocci



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