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Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Corriere dei Ciechi

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Numero 1 del 2020

Titolo: CENTENARIO DELL’UNIONE- La Storia dell’Unione

Autore: Vincenzo Massa


Articolo:
Eccoci pronti ad aprire le porte di un evento eccezionale, che sarà unico e irripetibile per noi, i cento anni di vita dell'Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti. Proveremo, dalle pagine de "Il Corriere dei Ciechi", a raccontare questa storia cercando di cogliere gli aspetti salienti del cammino dei minorati della vista attraverso le opere e le attività realizzate, dal 1920 ad oggi, dall'Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti.
C'era una volta, cominciano quasi sempre così i racconti che tanto spesso aprono la fantasia verso voli pindarici, ma questa volta vogliamo raccontare dell'Unione Italiana dei Ciechi perché all'interno delle sue pagine si possano scorgere testimonianze e insegnamenti che sono ancora validi. Il cieco una volta era visto come uomo da commiserare e da aiutare facendogli la carità e per la gran parte di essi la filantropia era l'unico strumento caritatevole per sostenere la vita di un cieco che non poteva avere altro futuro. Anni difficili per la maggioranza dei ciechi che alle difficoltà della vita quotidiana doveva aggiungere la compassione che, di fatto, li metteva in una condizione di solitudine e silenzio ancora più aberrante perché la condizione di mendicante era l'unica aspirazione possibile. Questi "poveri ciechi", dunque, quando non erano sulle strade erano ricoverati in ospizi dove la loro vita era forse peggiore dei compagni d'ombra nelle strade. Un misero pasto, un posto per dormire non li riparava dal freddo e dalla solitudine dell'abbandono, da quei posti uscivano solo per l'ultimo viaggio, quello senza ritorno. La situazione non mutò neanche quando sorsero i primi istituti per ciechi poiché i mecenate che davano origini a queste organizzazioni avevano in mente solo la compassione e la pietà. Un pasto caldo, un letto per dormire, qualche rudimento di cultura andava più che bene per questi ciechi che non potevano o dovevano aspirare ad altro.
I ciechi cominciarono, però, a prendere coscienza delle proprie capacità tanto da non guardare più quale unico traguardo della propria vita la morte. Il buio delle coscienze dei non vedenti cominciava a spalancarsi verso la luce della passione di diventare protagonisti del proprio destino e uno degli esempi più illustri fu proprio il grandissimo Augusto Romagnoli, Uomo coltissimo, pedagogo illuminato che seppe trovare nuove strade affinché anche i ciechi potessero progettare il proprio futuro.
I primi tentativi di organizzazione dei ciechi in Italia risalgono principalmente a due società di patronato, fondate negli ultimi decenni dell'800, intitolate a "Nicolò Tommaseo" e alla "Regina Margherita". Grande animatore di queste fu Dante Barbi Adriani che fondò e diresse anche il primo periodico in braille e uno in stampa normale a favore della categoria. Nel 1910 su proposta di Carlo Grimaldi, Augusto Romagnoli ed altri, si costituì la "Società pro-cultura fra gli insegnanti ciechi" che risultò essere la prima associazione di soli non vedenti. L'entrata in guerra, nel primo conflitto mondiale, stava per stravolgere, però, il mondo dei privi della vista in Italia. Siamo nel 1915, precisamente domenica 25 luglio, quando il sottotenente Aurelio Nicolodi, arruolatosi volontario il 24 maggio 1915 subito dopo aver chiesto e ottenuto la cittadinanza italiana, appena ventunenne, era in servizio sul monte Sei Busi, che si trova a poca distanza da dove è stato realizzato il sacrario militare di Redipuglia. Era in corso la seconda battaglia dell'Isonzo, quando il giovane trentino venne ferito gravemente e restò cieco per lo scoppio ravvicinato di una granata che lo colpì al volto. Nel 1917 venne decorato con la medaglia al valor militare, con questa motivazione: "Colpito agli occhi e perduto la vista, mentre nella notte dava efficaci disposizioni per respingere gruppi di nemici spintisi con bombe a mano fin sotto la trincea da lui occupata, prima di ritirarsi dava ancora bella prova di calma e ardimento, incitando il proprio Reparto alla più strenua resistenza - Polazzo, 25 luglio 1915".
Nello stesso anno a Firenze, prima città d'Italia, veniva costituito il "Comitato per l'assistenza ai ciechi di guerra" che qualche mese dopo si fuse con l'ANMIG, associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra. Uno degli animatori e fondatori di questo comitato fu il frate francescano Gioacchino Geroni, appena tornato dal fronte di guerra, che era stato cappellano militare degli Arditi, corpo speciale del Regio Esercito. Geroni dovette insistere molto per convincere Aurelio Nicolodi a recarsi a Firenze per mettere a disposizione dei suoi commilitoni ciechi la sua fede e esperienza. Il giovane trentino non accettava il principio che il cieco non dovesse aspirare a nessun traguardo se non a quello di avere un minimo di conoscenza culturale e piccoli lavoretti per passare il tempo, per lui era inammissibile che il non vedente fosse percettore di gesti di misericordia o di pietà. Ricordiamo, però, che a quei tempi era vigente l'articolo 340 del codice civile del Regno d'Italia, emanato nel 1865, che disponeva che i ciechi e i sordomuti, giunti alla maggiore età, fossero inabilitati di diritto, a meno che il Tribunale non li avesse dichiarati abili a tutelare i propri interessi. Per Nicolodi, dunque, iniziava una sfida importante per ribaltare quella concezione partendo proprio dall'ente fiorentino. Sin da subito, grazie alle sue capacità fu nominato aiutante del direttore dell'ente. Dopo qualche mese però Gino Bartolomei Gioili, direttore dell'ente, si ammalò e per la sua sostituzione fu lui stesso a tentare di imporre Aurelio Nicolodi. Il consiglio dell'ente cercò di fare ostruzione perché era impensabile che un cieco, per di più ventenne, potesse essere chiamato a dirigere un istituto per ciechi. Ma Gioili riuscì a trovare un compromesso facendo nominare Nicolodi vice direttore per la parte tecnica e disciplinare. Il vice direttore da subito iniziò a riorganizzare la vita interna all'ente, che tra l'altro prevedeva la divisione fra soldati e ufficiali ciechi di guerra, facendo presente all'autorità militare che nessuno dei collaboratori, addetti ai ciechi di guerra, era indispensabile. Il secondo provvedimento riguardò i soldati ciechi ai quali fu proibito di andare per osterie a suonare l'armonica e il piantone che li aveva accompagnati fu immediatamente rispedito al suo corpo di appartenenza. A quel punto una delegazione di soldati ciechi andò a protestare con il conte Cosimo Rucellai, presidente dell'ente, minacciando addirittura una forma di sciopero se non fosse stato fatto rientrare il piantone. Il conte, molto scosso da quella protesta, riferì subito l'esito di quell'incontro ad Aurelio Nicolodi chiedendogli se non fosse il caso di adottare una tattica più remissiva rispetto a questa vicenda. Nicolodi chiese, invece, al conte di lasciarlo agire perché solo in questo modo si poteva mettere fine a questa vicenda. Insieme si recarono dall'autorità militare, rappresentata da un colonello medico, per raccontare della situazione. Non fu semplice per il giovane trentino farsi valere in questa circostanza per convincere colonnello e presidente dell'ente che dovesse avere lui la piena autorità e non un altro ufficiale in quanto i soldati ciechi avrebbero ubbidito assai più facilmente a un superiore cieco che a un vedente. I due con grande perplessità affidarono a Nicolodi l'incarico il quale non perse tempo e appena ritornato presso l'ente convocò i soldati ciechi. A tutti ribadì che il piantone non sarebbe tornato e che da quel momento non avrebbe più tollerato nessun atto di insubordinazione per cui da subito ognuno doveva riprendere il proprio posto, in caso diverso si poteva scegliere fra il rientro in reparto o in famiglia e in caso diverso non avrebbe esitato a denunciarli all'autorità competente. A quel punto dalla sala si levò la voce di un soldato che esclamò "Se qualcuno entra in laboratorio gli spacco la testa". La replica di Nicolodi fu, però, fulminea "Tu rientrerai immediatamente. Se rifiuti ti denunzio al Tribunale Militare per incitamento all'insubordinazione". Mentre quel soldato lasciava la sala, tutti gli altri rientrarono a lavoro e si concluse così quell'infuocata assemblea che conferì autorevolezza e riconoscimento di maturità da parte del consiglio che dopo qualche mese lo nominò direttore effettivo dell'ente.
Molti anni dopo, a proposito di quello sciopero dei cinquanta soldati ciechi del 1919, scriveva "Debbo a quella loro rivolta inconsulta se ci rinsaldammo virilmente fra noi senza di che il corso della mia vita avrebbe potuto essere diverso".
L'incarico di direttore, che il giovane trentino svolse con grande passione, cominciava ad andargli stretto poiché più studiava il problema dei ciechi e più si rendeva conto della miserevole condizione di quei "fratelli d'ombra", come li chiamava lui, soprattutto di coloro che non essendo reduci di guerra non potevano contare su una pensione d'invalidità o sulla possibilità di impegnarsi in qualche attività lavorativa. Per questo motivo avviò personalmente degli esperimenti ed uno di questi lo portò a laurearsi in economia e commercio, pur avendo un diploma di geometra, a Roma il 15 luglio del 1920, pochi mesi dopo il suo matrimonio con Maria Priolo che aveva sposato il 19 aprile, discutendo la tesi " Il porto di Ostia e la navigazione sul Tevere" ottenendo il voto di 110/110.
La Storia dell’Unione continuerà sui prossimi numeri de “Il Corriere dei Ciechi”



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