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Corriere dei Ciechi

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Numero 6 del 2020

Titolo: RUBRICHE- Occhio alla ricerca

Autore: a cura di Andrea Cusumano


Articolo:
Predire la gravità della retinite pigmentosa legata all’X nelle bambine portatrici

La retinite pigmentosa (o anche semplicemente RP, dall’inglese retinitis pigmentosa) è una malattia genetica rara che colpisce la retina determinando la distrofia progressiva dei fotorecettori. Si tratta di una patologia rara, con una prevalenza che varia da 1 a 5 individui ogni 10 mila nati, ma fortemente invalidante, poiché causa deficit visivi gravi e, in alcuni casi, la perdita totale della visione.
L’età di insorgenza della RP può variare dall’infanzia all’adolescenza o all’età adulta. Il decorso è progressivo e frequentemente possono volerci anche decenni per arrivare ad accusare deficit visivi importanti, tuttavia in alcuni casi la progressione può essere rapida e determinare cecità anche in tempi brevi.
La retinite pigmentosa deve il suo nome alla presenza di caratteristici depositi di pigmento a livello della retina; tali depositi, visibili all’esame del fondo dell’occhio nei pazienti affetti, sono determinati da disordini del metabolismo retinico causati da difetti genetici. Ad oggi sono stati identificati più di 50 geni/loci associati alla RP, la quale, a seconda dei casi, può presentare diverse modalità di trasmissione: autosomica dominante, autosomica recessiva, recessiva legata all’X, mitocondriale.
La retinite pigmentosa legata all’X (o semplicemente XLRP, dall’inglese X-linked retinitis pigmentosa) è una forma comune di RP (circa il 20% dei casi totali), determinata nella maggior parte dei casi da una mutazione a livello del gene RPGR (Retinitis Pigmentosa GTPase Regulator), localizzato sul cromosoma X.
Essendo una patologia legata all’X, la XLRP si manifesta prevalentemente negli individui di genere maschile, poiché questi posseggono un solo cromosoma X e se questo è "malato" l’insorgenza della RP è certa, mentre nel genere femminile, che possiede due cromosomi X, la patologia è spesso asintomatica o presenta sintomi più lievi, poiché la seconda copia del cromosoma X è solitamente "sana" e riesce a compensare i difetti presenti sul cromosoma X malato; la probabilità che una donna abbia due cromosomi X entrambi malati e risulti affetta esiste ma è estremamente bassa.
Nei maschi la gravità della sintomatologia dipende dal tipo di mutazione presente e dall’azione di geni modificatori (geni in grado di modificare l’effetto della mutazione del gene RPGR).
Nelle femmine, invece, è stato osservato che, oltre al genotipo e all’azione dei geni modificatori, c’è da considerare l’effetto dell’inattivazione del cromosoma X, un fenomeno biologico che avviene in tutte le cellule delle donne e determina il silenziamento di uno dei due cromosomi X al fine di ottenere un’espressione genica quantitativamente equivalente a quella che si ha nei maschi, che presentano un’unica copia del cromosoma X.
La scelta del cromosoma X da inattivare, ossia quello ereditato dalla madre o quello ereditato dal padre, sembrerebbe avvenire in modo casuale, tuttavia diversi studi hanno dimostrato che esistono dei meccanismi molecolari in grado di inattivare in modo selettivo un determinato cromosoma X piuttosto che l’altro, spesso penalizzando il cromosoma che porta una mutazione svantaggiosa. L’inattivazione non casuale del cromosoma X si traduce in un rapporto tra cromosomi X inattivi di origine materna e cromosomi X inattivi di origine paterna che devia dal valore atteso di 50:50.
Uno studio pubblicato a maggio scorso sulla rivista scientifica Ophthalmology dal gruppo del Dr. Daiger, del Dipartimento di Genetica del University of Texas Health Science Center, ha cercato di analizzare più in dettaglio il legame esistente tra inattivazione non casuale del cromosoma X nelle donne portatrici della mutazione del gene RPGR e severità dei sintomi della XLRP. Lo studio ha preso in esame anche l’effetto del genotipo e dei geni modificatori e i dati ottenuti sono poi stati comparati con i dati di funzionalità visiva basati su parametri clinici quantitativi quali l’acuità visiva, il campo visivo Humphrey e l’elettroretinogramma (ERG).
La ricerca ha rivelato che il solo genotipo RPGR non risulta associato a severità clinica, tranne che per una particolare variante genetica, mentre una tale associazione è stata osservata per la presenza di inattivazione non casuale del cromosoma X. Le pazienti che hanno partecipato allo studio presentavano età molto eterogenee e, nella maggioranza dei casi, assenza di sintomi o sintomi lievi; quelle che hanno subito una progressione della patologia fino a perdita visiva moderata o grave avevano tutte un’età superiore ai 30 anni, indicando che in presenza di un assetto predisponente lo sviluppo di una sintomatologia più accentuata, si avrebbe il tempo di intervenire precocemente per cercare di rallentare il decorso della patologia e mitigarne i sintomi. Dai risultati ottenuti dalla ricerca del Dr. Daiger, sembra che il grado di inattivazione non casuale del cromosoma X nelle bambine e nelle giovani donne portatrici della mutazione nel gene RPGR possa rappresentare un valido marcatore in grado di predire la severità del decorso della patologia, suggerendo quindi l’eventuale necessità di interventi e trattamenti precoci. Questo dato è particolarmente importante alla luce del fatto che, anche se non è stata ancora individuata una terapia in grado di arrestare in modo definitivo la progressione della retinite pigmentosa o di restituire la visione, esistono comunque trattamenti che permettono di rallentare il processo degenerativo dei fotorecettori (quali la protezione dalla luce solare e la terapia vitaminica unitamente al trattamento delle complicanze come la cataratta e l’edema maculare); inoltre saranno presto disponibili nuovi approcci terapeutici estremamente promettenti che prevedono l’utilizzo della terapia genica, della neuroprotezione e delle protesi retiniche e per i quali ci sono oggi alcuni studi clinici in atto.



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