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Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Corriere Braille

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Numero 36 del 2020

Titolo: Storia dell'Unione

Autore: Vincenzo Massa


Articolo:
La presidenza Kervin
Apriamo questa nuova pagina di storia tornando ai mesi che hanno preceduto la morte del presidente Fucà. Il 6 e 7 novembre si riuniva a Roma il consiglio nazionale dell'Uic e iscritte all'ordine del giorno c'erano le dimissioni del Presidente Nazionale, Giuseppe Fucà, che aveva comunicato che per motivi di salute non poteva più onorare il suo impegno associativo. Le dimissioni, dopo un appassionato dibattito, furono respinte. Fucà dovette con grande pazienza e fermezza portare tutto il Consiglio Nazionale ad accettare quella decisione sofferta, che era maturata anche dopo una promessa fatta alla sua famiglia. Ecco la descrizione che Fucà fece di quel momento: «Mentre parlavo sentivo vivere in me due distinte anime: una voleva obbedire alla voce dei ciechi italiani per continuare, con tutti i rischi, la meravigliosa esperienza di impegno e di lotte; l'altra mi suggeriva di mantenere la promessa fatta alla famiglia che questa volta si aspettava da me un gesto di amore, capace di evitarle trepidazioni per tutte le ansie legate alla passione e alla fede con le quali avevo servito la causa dei non vedenti. Strinsi i denti e mi imposi un atto di umiltà proprio mentre tutti mi ricordavano un passato così ricco di prove».
Il Consiglio Nazionale all'unanimità decise di conferirgli a vita l'incarico di Presidente onorario e a quel punto la candidatura di Roberto Kervin divenne la scelta naturale per la successione. Ma chi era questo metalmeccanico penalista divenuto dirigente Uic. Ecco cosa raccontava sulla sua cecità e una parte della sua vita, l'avv. Roberto Kervin: «Avevo 17 anni e mi trovavo con alcuni compagni, quando avemmo la sventura di imbatterci in un residuato bellico. Ci fu uno scoppio e ci furono molte ferite. Io fui colpito agli occhi. Quello scoppio mi portò via la vista, in modo totale e immediato. Reagii senza nessun tipo di patema, forse con una certa dose di incoscienza. La cecità fu subito per me un motivo di lotta, non un motivo di depressione. Vede, quando capitano queste cose, nessuno dice ad un ragazzo di 17 anni: tu non vedrai più. Questa consapevolezza arriva piano piano, nel giro di alcuni mesi, perciò quando io finalmente ebbi la percezione precisa dell'irreversibilità del fatto, ormai mi ero abituato, cioè mi trovavo già in una dimensione diversa che avevo accettato in via provvisoria e che invece via via era diventata per me un fatto normale di vita. La mia vita cambiò totalmente. Prima ero un ragazzo come tanti altri. La mia famiglia era proletaria, mio padre faceva l'operaio, però aveva un certo livello di cultura: per lui parlerei veramente di civiltà del lavoro. Io avevo frequentato le scuole d'obbligo e poi avevo cominciato a lavorare, operaio come mio padre. Quando mi imbattei in quel residuato bellico, la mia vita cambiò, non solo sul piano pratico, che forse non sarebbe neppure quello più importante perché si può benissimo continuare a vivere anche con una minorazione sensoriale, ma soprattutto dal punto di vista culturale, intellettuale, psicologico. Prima ero un ragazzo attivo, ma senza particolari motivazioni; quel fatto mi creò una motivazione esistenziale totale, e cominciai prima di tutto a combattere contro l'atteggiamento emarginante, compassionevole che la gente aveva assunto verso di me che avevo perduto la vista. In altre parole, a torto o a ragione, ma credo più a ragione che a torto, mi ero sentito improvvisamente il «negro» della situazione. Mi trovai a combattere più con l'ambiente che con me stesso. Io trovai subito la mia nuova identità, non mi trovai mai in una vera e propria crisi: io sono quello di prima, mi dicevo, solo che non vedo. In queste situazioni soffre più chi ti vive accanto di te che subisci il fatto: io credo che abbiano sofferto infinitamente di più i miei genitori di quanto abbia sofferto io. Io ho sofferto forse fisicamente, ma sul piano morale, psicologico, mia madre e mio padre hanno accettato la realtà molto meno di me. Di certo avrebbero preferito avere un figlio operaio, ma integro. Io personalmente non trovai una differenza reale fra prima e dopo, anzi la cecità mi dava la possibilità di abbandonare una serie di situazioni che forse non erano del tutto soddisfacenti, come il fatto di non studiare più per lavorare come operaio. Mi rimisi dunque a studiare con entusiasmo, per dimostrare non a me stesso, ma a tutti coloro che mi stavano intorno, che nonostante la cecità potevo fare tutto quello che avrei voluto fare da vedente, e magari anche di più. Questo è stato il mio atteggiamento iniziale, e non l'ho più abbandonato. Studiai giurisprudenza e per vent'anni ho fatto l'avvocato».
Sin dal 1967 Roberto Kervin inizia ad occuparsi dell'Uic raggiungendo i ruoli apicali nella sua Trieste e nella sua regione. Nel 1970 fu chiamato a presiedere un Congresso in maniera brillante ed efficace sino al punto di convincere Fucà a chiamarlo e farsi affiancare nella conduzione nazionale dell'associazione. Era il 1974 quando Kervin viene eletto vice presidente nazionale dell'Uic. Furono anni tremendi e difficili quelli dal 1974-78, sembrava quasi che le associazioni dovessero esse messe all'angolo e il duo Fucà-Kervin dovette percorrere tutte le strade di Roma per ottenere la vittoria del 1979 sull'equiparazione dell'indennità di accompagnamento per i ciechi civili. Kervin, ormai, aveva abbandonato politica e professione e si era interamente dedicato alla causa dell'associazione tanto da iniziare a varcare, con il vessillo dell'Uic, i confini nazionali.
Ma ritorniamo al nostro Consiglio Nazionale del 1980 che aveva accolto le dimissioni di Fucà. Il dibattito fu partecipato e appassionato e si concluse con l'elezione all'unanimità di Roberto Kervin a presidente nazionale. A quel punto il presidente Fucà prende la parola dicendo: «Amici, consentitemi l'ultimo atto di questa grande mattinata: Caro Roberto ora sì che sono veramente commosso e devo farmi forza per poterti dire alcune cose, intanto prendi la mia sedia, prendi il mio posto, ti consegno questo campanello che è il campanello per dirigere i lavori dell'Unione. Mi sono sempre considerato l'Operaio di Aurelio Nicolodi perché quando facevo la fame mi accolse nella tessitura dell'Ente Nazionale di Lavoro per i Ciechi; mi sono sempre considerato un artigiano durante il periodo di Paolo Bentivoglio. Di Nicolodi ricordo una delle più belle frasi: «Non avrei visto compiuta la mia vita e la mia opera se non avessi fondato e creato l'Unione italiana dei Ciechi»; ed ancora una delle più belle frasi di Bentivoglio: «Non ci sono vie facili per noi, oggi ce ne sono poche anche per i non minorati, ma noi siamo sempre stati, siamo e saremo camminatori delle dure vie dell'eccezione; è questo il nostro destino non privo del resto di nobiltà e di poesia e non dobbiamo dimenticarlo mai, le lamentazioni del pessimismo o l'inerzia della misantropia non risolvono nulla, meglio marciare e cantare anche se i piedi sanguinano l'ora del successo e della serenità non può mancare per chiunque non abbia la viltà di buttarsi a terra». Nessuno dei Presidenti dell'Unione, caro Roberto, si è mai buttato a terra, non lo farai neanche tu che hai la tempra dei tuoi predecessori. Un'ultima cosa prima di darti l'abbraccio e la fiaccola della più grande, della più bella delle Associazioni esistenti in Italia; ogni qualvolta hanno ferito la mia dignità di uomo ho perdonato perché ho attinto dal Cristianesimo e dal socialismo che l'uomo può essere ferito ed offeso, ma quando hanno toccato il prestigio dei ciechi d'Italia non ho perdonato nessuno, ho combattuto con l'asprezza, la durezza delle rocce della mia Calabria. A tutti coloro che incontrerai come avversari mostrerai la tua tempra e vincerai, per le tue spalle chiedo un compito, me lo affidò Bentivoglio durante un Congresso con una battuta di spirito ed io oggi non ho battute di spirito da fare o impegni da prendere io che ho meno forza di te da oggi guarderò le tue spalle e poi Roberto nell'abbraccio ti consegno una fiaccola grande che illuminerà il tuo cammino».
La commozione di tutti presenti era forte perché quel condottiero forte e audace lasciava un vuoto grande e al neo presidente toccava un testimone scomodissimo visto la valenza e la statura dei suoi predecessori. Queste le sue prime parole da presidente nazionale: «Caro Presidente, carissimi amici e compagni, oggi per me è un giorno storico più di quanto non lo sia per la stessa Unione Italiana dei Ciechi. Prendere questa fiaccola non significa semplicemente essere il Presidente di un'Associazione; quando passiamo per le strade di molte città italiane ci fermiamo spesso davanti a Via Nicolodi, a Via Bentivoglio, questo significa che i Presidenti dell'Unione non sono stati degli Amministratori; quando mi incontro con persone politiche di ogni livello sento parlare di Fucà come di un Santo e quindi Voi vi rendete conto che questa eredità rappresenta un fardello che veramente senza il Vostro conforto, senza il Vostro aiuto sarebbe impossibile portare. Io ho un'altra sicurezza, un'altra tranquillità che tu Giuseppe non hai avuto, io ho al mio fianco chi non mi guarda solo le spalle, ma mi guarda in faccia per scrutare se ho delle perplessità, dei dubbi, delle debolezze: ho te, ho Giuseppe Fucà. Io ho lavorato in questi due anni in queste stanze cercando soltanto, di notte e di giorno, di interpretare più che la tua parola, il tuo pensiero ed i tuoi sentimenti e spero di aver potuto interpretarli e trasfonderli nelle nostre iniziative come tu avresti fatto e come tu facevi quando operavi in queste stanze. Questa mia scelta non è cambiata, la mia ispirazione continuerà ad essere sempre Giuseppe Fucà e se qualcuno di Voi mi chiederà che Fucà non sia la mia ispirazione non sarà un mio amico e se tutti Voi mi chiederete questo, io me ne andrò. Noi abbiamo di fronte degli impegni e delle difficoltà enormi, siamo, è vero, usciti da una situazione che era terribile, che era di collasso, che era di agonia per le strutture associative come la nostra, ma non illudiamoci che la società italiana sia diventata migliore in questi due anni, non crediamo che abbiano perdonato ai Dirigenti dei ciechi italiani di essere stati orgogliosi di difendere la propria Associazione pena la propria personale distruzione professionale, familiare e anche di salute. Esistono rannicchiati e nascosti negli anfratti più bui dei partiti politici italiani, personaggi squallidi pronti ad attaccare e a distruggere la nostra Organizzazione; ci faranno pesare la nostra vittoria in ogni momento in cui questa vittoria potrebbe essere fatta valere e quando l'anno scorso abbiamo celebrato questa nostra rinata volontà di combattere con il trionfo della legge per l'indennità di accompagnamento, ebbene, molti di noi abbiamo sentito questo rancore sordo di forze contrarie alla nostra vera emancipazione, le abbiamo sentite sbucare qua e là poche in verità, ma molto pericolose e quindi non illudiamoci che la vita sarà facile, non crediate che questa nostra euforia di continuare a lottare, di aver aggiunto una persona come me ad una grande persona come Fucà possa darci la tranquillità del riposo. Io non vi prometto riposo, io vi prometto più che mai viaggi a Roma, più che mai notti insonni, io dico a Carlo Bassi che verrà tante altre volte stancandosi perché gli aerei non funzionano, perché questa società non ci dà delle strutture che siano veramente a misura d'uomo, non crediate perché siamo riusciti a passare attraverso un fiume in piena grazie alla nostra tranquillità e forza d'animo che questo possa essere il segno di una riconquistata serenità. Dobbiamo sapere, quindi, che l'indennità di accompagnamento od altre conquiste ci sono state perché le abbiamo vissute, le abbiamo volute; ce le hanno date dopo che le abbiamo duramente strappate. I ciechi italiani sono ancora in una condizione di inferiorità sociale che forse noi qui non viviamo e non percepiamo in pieno solo perché tutti voi siete delle persone eccezionali nella società, ma i cento e più mila ciechi italiani vivono in una situazione psicologica e sociale che li rende ancora gli ultimi della nostra società. Sono, certamente belle parole quelle che sindacati, partiti politici, altre forze sociali e settori d'ogni parte ci vengono a dire: «Noi siamo contro l'emarginazione, siamo per l'integrazione»; quando, però, Galiano deve vincere un concorso a Preside per non essere escluso deve travestirsi da vedente e quando tutti noi dobbiamo affrontare un qualche problema nella nostra professione, dobbiamo far finta di essere dei geni perché se non siamo geni siamo dei derelitti. Per vincere l'emarginazione c'è bisogno anche di contributo da parte della società e, quindi, dello Stato; l'indennità di accompagnamento, la pensione che noi vorremmo e sapremo strappare più giusta e strutturata in modo più equo, certamente sono degli strumenti ai quali non possiamo mai rinunciare per la nostra integrazione. Il discorso sociale, però, il discorso di essere veramente uomini fra gli uomini, di poter lavorare in modo che non dobbiamo ogni mattina dover dimostrare di saper mettere il pane in bocca, di poter andare per strada anche con il bastone bianco senza che la gente ci guardi con compassione e con pietà, deve rappresentare il nostro impegno prioritario. Essere ciechi nella società e come tali avere la propria dignità di uomini non nascondendo o minimizzando la nostra minorazione è il traguardo che noi dobbiamo raggiungere. Questo programma io, di fronte a voi e di fronte al Presidente Fucà, mi impegno di portare avanti. Quando lasciai la Presidenza della Sezione di Trieste perché chiamato dal Congresso in Giunta, una cara vecchina mi disse le più belle parole che poteva dirmi: «Lei Presidente ci ha fatto sentire meno ciechi». Ebbene amici io questo impegno prendo qui di fronte a voi, solennemente, desidero quando lascerò questa carica secondo le vostre volontà sentirmi dire: «Kervin, i ciechi italiani, grazie a te, si sono sentiti un po' meno ciechi».
Il 10 e 11 marzo 1981 si concretizza il lavoro di un anno prima, quando si era svolta la manifestazione degli handicappati europei, con la presenza dei ciechi di tutta Europa in prima linea per rivendicare il riconoscimento sociale di uomini e donne alla pari con gli altri, altro aspetto importante da sottolineare è che l'Unione Italiana dei Ciechi, con Roberto Kervin presidente della Federazione Europea dei Ciechi, si è trovata alla guida di questa importante e significativa presenza a Strasburgo. Il Parlamento europeo, che aveva cominciato ad affrontare l'argomento degli handicappati affidando il compito alla Commissione per gli Affari Sociali, aveva incaricato il deputato europeo britannico Mrs. Ann Clwyd di redigere uno schema di risoluzione che sarebbe prima stato discusso dalla Commissione e quindi dal Parlamento in seduta plenaria.
Finalmente il 10 marzo 1981 la risoluzione per le persone handicappate fu posta all'ordine del giorno del Parlamento Europeo. Per l'intero pomeriggio del 10 marzo il Parlamento discusse la risoluzione predisposta da Mrs. Clwyd e presentata dalla Commissione degli Affari Sociali e per l'intera mattina dell'11 il Parlamento votò articolo per articolo, emendamento per emendamento e quindi nel suo insieme la risoluzione del Parlamento Europeo sulle persone handicappate. Un documento questo di portata storica perché al di là delle affermazioni di principio pone dei precisi obblighi di carattere politico ai governi d'Europa e di carattere formale agli organi comunitari.
In Italia siamo al 22 aprile del 1982 quando a Roma, forti della grande manifestazione che si era tenuta a Bologna, migliaia di ciechi italiani ritornano in piazza per richiamare il Governo, il Parlamento ad approvare le leggi che giacevano da troppo tempo nei cassetti della politica. Una voce forte e un coro unanime si levò ancora una volta da parte dei ciechi che erano pronti ad un'altra grande sfida. Ecco alcuni passi del racconto che il presidente Kervin faceva di quelle giornate: «Avremmo voluto non dover mai prendere quella decisione amara. Abbiamo dovuto sfidare lo Stato, i politici e noi stessi per conquistare il diritto di veder rispettati i nostri diritti. Ma perché questo Stato appare così malvagio verso i più deboli? Quale impotenza repressa si scatena nei nostri uomini politici quando ci costringono ad azioni di lotta così dure ed umilianti per tutti? Sarà malvagità, impotenza, o più semplicemente inesistenza di una struttura politica e sociale che sappia gestire con equità e giustizia la cosa pubblica? Non so cosa sia. So soltanto che ci siamo trovati amaramente costretti a mettere in atto la sfida che avevamo lanciato allo Stato. Abbiamo chiesto allo Stato il rispetto delle leggi dello Stato e abbiamo chiesto alle forze politiche e parlamentari il rispetto dei loro impegni troppe volte affermati e mai attuati».
Mentre l'Uic entra nell'anno del Congresso arriva l'approvazione della riforma del collocamento obbligatorio per i centralinisti non vedenti, che farà poi da apri pista per tutti i lavori della categoria impegnati anche in altre mansioni, arriva la legge 113 che garantirà per molti anni l'assunzione di tanti operatori telefonici ciechi e ipovedenti. Il XVI Congresso verrà celebrato a Roma il 7-8-9 novembre1985, il titolo di quella assise era l'emblema di quanto accaduto in quegli anni difficilissimi: «Per la difesa e l'avanzamento delle conquiste sociali dei ciechi italiani».
L'euforia del 1981, quando l'Onu aveva celebrato l'anno delle persone con handicap, dovette fare i conti con il tentativo delle istituzioni di voler relegare nell'oblio la marcia lenta e faticosa compiuta dall'Uic, nei suoi primi 65 anni di vita, per il riconoscimento della dignità e alla partecipazione alla pari delle persone cieche. Dobbiamo tuttavia segnalare che questa filosofia distruttiva è già presente nel pensiero politico dell'ultimo quadriennio, basti ricordare la circolare interpretativa dell'art. 14 septies della legge 33 del 1980, con la quale il Ministero degli Interni differenziò contro il dettato della predetta legge i limiti di reddito fra i ciechi assoluti ed ciechi ventesimisti; o le varie circolari del Ministero della Pubblica Istruzione sull'obbligo di utilizzare insegnanti di ruolo, anche se non specializzati, in luogo di supplenti specializzati a sostegno degli handicappati; basti ancora ricordare i vari decreti legge contro cui si era dovuto lottare per poterli bloccare, quali: in riferimento a tutti gli invalidi l'art. 9 della legge n. 638-1983 che limitava il collocamento degli stessi, l'art. 8 del Decreto Legge 12 settembre 83, n. 463 che eliminava la pensione di invalidità Inps di tutti i lavoratori, ciechi compresi, che superassero un certo reddito, che eliminava inoltre l'esonero dai ticket e varie altre provvidenze in favore degli handicappati; ed ancora, l'art. 2 del Decreto Legge 29 agosto 1984 n. 528 che considerava, nel novero dei redditi per la concessione di provvidenze sociali, anche i redditi esenti. Quella circolare sul reddito fu superata con la legge n. 660 dell'8 ottobre 84 che equiparava in via definitiva i limiti di reddito dei ciechi ventesimisti a quelli dei ciechi assoluti; la legge di conversione n. 638 dell'11 novembre 83 che ripristinava la pensione di invalidità Inps ai ciechi lavoratori, l'esonero dai ticket e la concessione di un periodo di cure climatiche; ed ancora la legge di conversione n. 733 del 31 ottobre 84 che escludeva dai redditi esenti le pensioni erogate ai ciechi, ai sordomuti e agli invalidi civili. Queste avversità richiesero grande sacrificio dei dirigenti e l'unità dei ciechi italiani che per tantissime volte furono costretti a scendere in piazza per difendere quelle conquiste. Il dibattito di quel Congresso fu molto partecipato e da più parti i delegati richiamavano la necessità di unità per le sfide future. La relazione morale presentata dalla dirigenza uscente venne approvata a larga maggioranza e Roberto Kervin veniva riconfermato presidente nazionale. Per concludere il racconto di questo periodo vorremmo ricordare un breve passaggio della relazione morale: «Abbandoniamo tutti durezza di carattere, inutile superbia e volontà di rivincita; continuiamo unitariamente a lavorare per il bene comune, consapevoli che c'è spazio per tutti, anzi, la scarsità di quadri associativi è più che mai sentita e presente. Se non è sempre opportuno risolvere i problemi con un voto di maggioranza, non è nemmeno consentito alla minoranza di imporre le proprie scelte. Un giusto equilibrio tra linee di politica associativa e uomini che debbono gestire queste linee, garantirà ancora una volta che l'Unione Italiana dei Ciechi è qualcosa di ben superiore a ciascuno di noi».



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