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Kaleîdos

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Numero 8 del 2021

Titolo: La ricerca che salva la vita

Autore: Paola Bertelli


Articolo:
(da «F» n. 13 del 2021)
Diagnosi precoci, nuovi farmaci, terapie mirate: il cancro oggi fa meno paura. Ne parliamo con Paolo Veronesi e con quattro donne che portano avanti le battaglie del futuro
«La pandemia ci ha ricordato che le guerre si vincono preparandosi in tempo di pace, investendo in ricerca in modo strutturale e lungimirante».
Paolo Veronesi, chirurgo senologo Ieo e presidente della fondazione intitolata al padre Umberto, non ha dubbi nell'affermare come, negli ultimi vent'anni, la ricerca abbia subito un'accelerazione impressionante: migliaia di nuovi farmaci disponibili, test genetici sempre più precisi e meno costosi e test genomici che permettono di ottimizzare le terapie. I risultati si toccano con mano. «Il tumore al seno ogni anno in Italia colpisce circa 55 mila donne e oggi, se diagnosticato in fase precoce, la percentuale di guarigione sfiora il 90 per cento. Ci sono poi alcune leucemie infantili che hanno visto letteralmente ribaltarsi le chance di guarigione, dal 10 al 90 per cento rispetto a pochi decenni fa», spiega. Investire in ricerca significa salvare vite, avere una medicina sempre più personalizzata, terapie mirate e una qualità di vita migliore dei pazienti.
La Fondazione Veronesi, anche quest'anno, ha assegnato 133 borse di ricerca a medici e ricercatori di alto profilo scientifico. Noi abbiamo incontrato quattro donne che l'hanno ricevuta per capire quanto sia importante sostenere il loro lavoro.
Federica Scalorbi, 36 anni, specializzata in Medicina nucleare, è ricercatrice all'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano
D. Di cosa si occupa?
R. Analizzo la Pet, un esame diagnostico, con un metodo che permette di scandagliare le immagini e ottenere più informazioni sul tumore, andando oltre a quello che può vedere l'occhio umano. In pratica, le converto in dati numerici, grazie a potenti software, e studio le possibili correlazioni tra i dati e la situazione della paziente. Mi occupo, in particolare, dei tumori alla cervice uterina e lo scopo è caratterizzare meglio la malattia per prevedere la risposta ai trattamenti e individuare precocemente quelli ottimali per ognuna. In futuro ci auguriamo di poter predire, per esempio, se è più indicato un intervento chirurgico o una determinata cura.
D. Per questo tumore c'è un vaccino che, se fatto prima dei 17 anni, riduce dell'88 per cento il rischio.
R. Sì, quello contro il papilloma virus, il principale fattore di rischio per questa patologia. Contrarlo non significa sviluppare il tumore, ma avere più possibilità. Il virus si trasmette per via sessuale, il vaccino è consigliato a chi non ne è mai entrato in contatto come le adolescenti, ma è raccomandato sino ai 26 anni. Possono farlo anche i ragazzi per evitare di trasmetterlo e, in rari casi, di sviluppare a loro volta patologie tumorali.
D. Ha sempre voluto fare questo lavoro?
R. Ero indecisa tra Matematica e Medicina, alla fine ho scelto Medicina nucleare, che è un ambito sì medico, ma anche legato alla fisica, alla chimica, alla statistica.
D. Lati negativi?
R. Per fare rapidi passi avanti nel mio tipo di ricerca, oggi ancora a livello sperimentale, servirebbero macchine e software molto più potenti e innovativi e fondi pubblici a lungo termine per sviluppare un progetto articolato.
Elisabetta Stanzani, 34 anni, biotecnologa all'Istituto Clinico Humanitas di Rozzano
D. Di cosa si occupa?
R. Studio i tumori del cervello, in particolare il glioblastoma e il medulloblastoma, Il primo è molto aggressivo, il secondo colpisce i bambini e ha un'aspettativa di vita migliore: circa il 70 per cento sopravvive oltre i tre anni dalla diagnosi. Chi guarisce corre però il rischio di riportare deficit neurocognitivi gravi. Sono malattie in cui la prevenzione è ancora indietro, non ci sono campagne di screening e i campanelli d'allarme che possono aiutare a scoprirle sono pochi.
D. In cosa consiste la sua ricerca?
R. Indago delle particolari vescicole rilasciate dalle cellule malate che hanno un effetto su quelle circostanti e favoriscono lo sviluppo della malattia. Cerco di capire come vengono prodotte, cosa contengono e come bloccarne l'effetto per migliorare l'aspettativa di vita e le terapie. Spero, con il mio lavoro, di poter dare un contributo concreto alla conoscenza scientifica.
D. La scienza l'ha sempre appassionata?
R. La scienza e la scoperta: da bambina volevo fare l'archeologa. Poi è subentrato un altro desiderio, quello di studiare come migliorare la vita delle persone. Del mio lavoro mi affascina il rigore scientifico, che non va immaginato come qualcosa di rigido, come si è portati a credere: nella scienza tutto ciò che è vero, lo è fino a che non si dimostra il contrario. E questo significa mettersi sempre alla prova, aspetto che mi fa amare profondamente quello che faccio.
D. Lati negativi?
R. La precarietà, che per noi ricercatori è all'ordine del giorno. Veniamo sostenuti da fondazioni private, sono loro che ci permettono di portare avanti il nostro fantastico lavoro. Anche all'estero è spesso così, ma è una precarietà diversa: gli stipendi sono più alti.
Emanuela Fina, 38 anni, ricercatrice all'Istituto Clinico Humanitas di Rozzano
D. Di cosa si occupa?
R. Lavoro sui biomarcatori tumorali, ossia i segnali biologici della presenza di un tumore. Sto sviluppando un test non invasivo per la diagnosi precoce del tumore del polmone: basterà un esame del sangue.
D. In cosa consiste la sua ricerca?
R. Studio le cosiddette «cellule tumorali circolanti», quelle che si staccano dalla massa tumorale ed entrano nel circolo sanguigno: oltre a denunciare la presenza del tumore possono dare informazioni sull'andamento della malattia e sulla risposta ai trattamenti. Quello del polmone è la causa principale di morte per tumore, è allarmante vedere che l'incidenza sulle donne è in aumento. Purtroppo è molto aggressivo e spesso asintomatico. Diagnosticarlo con un semplice prelievo fa guadagnare tempo ed è un metodo non invasivo.
D. Ha sempre voluto occuparsi di ricerca?
R. Inizialmente desideravo diventare biologa marina, poi ho visto persone care soffrire e ho deciso di studiare biotecnologie mediche, sognando di entrare a far parte della ricerca: mi piace pensare di contribuire alla conoscenza.
D. Lati negativi?
R. La scarsità di fondi e la mancanza di posizioni lavorative strutturate: questo dopo i primi anni pesa. Per esempio, come lavoratrice atipica non ho una posizione previdenziale.
Paola Falletta, 40 anni, è biologa cellulare molecolare e lavora all'Ospedale San Raffaele di Milano
D. Di cosa si occupa?
R. Individuo cure mirate per il cancro al seno triplo negativo, il più aggressivo perché non esiste una terapia specifica.
D. In cosa consiste la sua ricerca?
R. Studio come si è alterato il metabolismo nella cellula malata comparato con quello di una cellula sana. In questo modo posso dire ai farmacologi: «Questa molecola si è alterata, proviamo a bersagliarla con un determinato farmaco che, a differenza della chemioterapia, ha meno effetti collaterali e permette di sconfiggere il tumore, evitando che si ripresenti». Sono sei anni che mi dedico allo studio del metabolismo: all'Università di Oxford ho studiato quello del tumore alla pelle, il melanoma. Ora cerco di applicare le scoperte fatte in Inghilterra al triplo negativo per vedere se c'è un fattore comune e trovare un farmaco che possa lavorare su più malattie oncologiche.
D. Ha sempre voluto occuparsi di ricerca?
R. Sì, pensi che da bambina volevo risolvere il problema del buco dell'ozono costruendo dei tappi. Mi è sempre piaciuto cercare risposte a domande difficili. Inoltre, mia madre era infermiera e mi ha insegnato l'importanza del prendersi cura degli altri.
D. Lati negativi?
R. Finanziamenti limitati e incerti portano a progetti meno ambiziosi e a farsi domande più «piccole», limitando le capacità degli studiosi.
Paola Bertelli



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