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Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Kaleîdos

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Numero 19 del 2021

Titolo: «Io, dall'Italia al Giappone. E ritorno»

Autore: Laura Imai Messina


Articolo:
(da «Donna moderna» n. 41 del 2021)
È partita per Tokyo 20 anni fa: lì è diventata scrittrice, moglie, madre. Ora che sta per trasferirsi a Milano, Laura Imai Messina racconta cosa l'ha spinta: «La vita richiede periodicamente d'essere scelta»
A Naoshima, un'isola remota dell'arcipelago del mare interno di Seto, esiste un edificio di cedro bruciato in cui si entra a occhi spalancati ma non si vede niente. Il buio è talmente spesso che non si colgono neppure i confini della stanza, il profilo dei corpi accanto. «Per orientarvi premete i palmi sulle pareti. Ecco, sedetevi qui» guida una voce. «E ora, semplicemente, aspettate». Ci vogliono 10 minuti perché il nulla diventi qualcosa, e ogni istante qualcosa di più. L'occhio lentamente si abitua e ci si accorge allora dei fari accesi, dei riquadri di luce, della profondità; si comincia a camminare sicuri per la stanza, si realizza la meraviglia dell'affrontare l'oscurità, si capisce il valore incredibile della pazienza, capace di renderti visibile ciò di cui, un momento prima, non sospettavi l'esistenza. L'edificio, realizzato dall'architetto Tadao Ando, si chiama Minamidera, l'opera è stata ideata da James Turrell, un artista statunitense che gioca con la percezione di luce e spazio. E io, tra quelle mura profumate di legno, e aria fresca, ho maturato una delle scelte più importanti della mia vita.
Sono nata a Roma, la cui bellezza mi è parsa da sempre una lezione definitiva. «Se abiti a Roma ti condanni al paragone costante» pensavo. Sbagliavo: Tokyo è sempre stata all'altezza, forse proprio perché non si mette in gara. Abito da quasi 20 anni in Giappone, l'adulta che sono si è definita tra le villette del quartiere di Musashi-sakai, attraversando a piccoli passi i campus universitari; si è addestrata all'amore nuotando a grandi bracciate nei colori sfrenati di Harajuku, gli occhi aggrappati ai grattacieli di Shinjuku, anche quando diluviava e il mondo appariva una distesa di gocce attraverso la cupola trasparente degli ombrelli dei konbini (i piccoli supermercati, ndr). Mi è cresciuta la pancia sulle linee della Yamanote, quando all'alba uomini e donne sconvolti dalla notte d'alcol e promiscuità restavano a terra; partorendo ho urlato il dolore mentre le donne giapponesi, nello stesso ospedale, restavano zitte. Per annodare un marito, 2 figli, incarichi universitari e la scrittura, sono uscita alle 5 di ogni mattina scorgendo il profilo del monte Fuji, e non ho dubitato un momento che quello spettacolo appartenesse anche a me.
Amo il Giappone, è casa mia. Con buona probabilità morirò qui. Ho capito però che una vita, anche la più bella, richiede periodicamente d'essere scelta. Sono arrivata a 20 anni e, senza interruzioni, ci sono rimasta. Non ho mai provato quel mal di Giappone che è la declinazione del 21o secolo del mal d'Africa. Allora ecco la rivoluzione, l'idea maturata nell'oscurità del Minamidexa: per 2 anni, dall'inizio del 2022, prenderemo casa a Milano, i bambini andranno lì a scuola, io capirò per la prima volta cosa significa essere scrittrice in Italia. Ryósuke, marito, alleato, migliore amico, con me. «Chissà che casino sarà organizzare! In Giappone tutto funziona perfettamente, invece qui... Lì hai l'asilo aperto d'estate, gli uffici ad agosto. Qui in Italia, capirai...» dicono alcuni. Io però non credo nella comodità. Come nella lettura ad alta voce, come quando si insegna a un bambino la bellezza dell'imparare, servirà quel tipo di dedizione iniziale che ti costringe alle cose. Cose che poi, se avrai avuto fede, rischi di amare talmente da pensare: «Ma prima, senza, come facevo?».
In Giappone si legge l'aria. Si dice letteralmente kùki woyomu ed è la capacità di prevedere le intenzioni dell'altro, senza doverlo spingere a verbalizzare. È un esercizio costante di empatia che rende altissima la qualità della vita. Nell'Italia che non sa leggere l'aria, scopriremo di contro la gioia sfrenata di comunicarci. Ci sarà quel calore degli italiani - anche frettoloso, pure molesto - che talvolta mi manca, la passione del vivere, l'urgenza di esprimersi che vorrei i miei figli sapessero riconoscere dentro di sé, come un'impronta che porteranno sempre nel Dna. Esattamente come me, che dopo 20 anni di Giappone non mi sento più italiana né mai sarò giapponese, i bambini conosceranno un altro modo di essere, Ryòsuke accetterà la perdita del controllo, imparerà ad amare ciò che non funziona ma che è bello al punto che... Al diavolo la difficoltà!
Ho capito negli anni che la scomodità serve ai ricordi. In tutto ciò che scorre senza intoppi scivola anche la vita. Questo perché l'agio è nemico dell'unica cosa che rende l'esistenza valevole della fatica: la memoria. Ricordiamo soltanto le cose per cui abbiamo faticato, quelle che ci hanno richiesto energie che non pensavamo d'avere. La sfida della mia scrittura sarà mostrare che non è solo merito del luogo, che è lo sguardo piuttosto a trasformare le cose. Che la bellezza disperata che avverto per le vie di Milano non è inferiore all'incanto dei sentieri orlati di muschio di Kamakura, che le montagne di spazzatura che si ammucchiano intorno ai cassonetti di Roma sono figlie dello stesso degrado interiore che rende certi tratti dell'autostrada che collega Tokyo a Fujisawa un ammasso di scarti di bentó (i contenitori per i pasti fuori casa, ndr). E allora dondoleremo tra la casa di Milano e quella in Giappone, convinceremo il mondo che serve partire da un punto, uno qualsiasi, fare un giro e tornare.
Stare, solo allo scopo di partire. «Partire è la meta» scrisse Giuseppe Ungaretti. Parlava di Lucca, ma sospetto intendesse la vita. Ed ecco che torno con la memoria a quel momento preciso al Minamidera in cui è maturata l'idea, e comprendo come ogni partenza, ogni cambiamento dell'esistenza, coincida con quell'affidarsi al buio, nonostante tutte le resistenze che alza il corpo d'istinto: gli occhi spalancati, il respiro sospeso, l'udito allertato. Poi, come seguendo la ricetta di un dolce delizioso e complesso, bisognerà aspettare: perché per abituarsi ci vuole tempo. E quanta più luce c'era all'esterno, tanto più impiegheranno gli occhi a impigliarsi alle ombre dentro. Serve coraggio per stare. Serve coraggio per partire. Serve coraggio per iniziare a scegliere dove andare. E tuttavia, come scrisse Cesare Pavese: «L'unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante».
Laura Imai Messina



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