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Kaleîdos

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Numero 21 del 2021

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Ho lasciato la Moldavia per dare un futuro ai miei figli
Storia di Silvia
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
«Con te mi sento una regina!» Era la frase di Maria, mentre la vestivo. Nella vita era stata una sarta, e avrebbe dovuto vestirmi lei, diceva. Eppure il primo giorno mi aveva tirato per i capelli: «Ma che vuoi fare? Mi vuoi spogliare?».
Col tempo ci si conosce, ci si accetta. S'impara a superare le diffidenze reciproche, le differenze.
Maria se n'è andata a 101 anni.
Le amiche che fanno il mio stesso lavoro di badante - sì, lo so, è una brutta parola, ma ormai ci siamo abituate - mi prendono in giro per la longevità delle mie anziane signore. Credo di avere una disponibilità naturale a prendermi cura delle persone, in fondo fa parte della nostra cultura, che rispetta i vecchi. Ma ho anche competenze professionali che mi sostengono. A Chisinàu, la capitale del mio Paese, la Moldavia, ero infermiera, ho lavorato per quindici anni in ospedale.
Mi ero sposata giovane, come si usa ancora da noi, a 18 anni, ed erano arrivati presto Mario e Andrean. Mio marito Vassilij era ingegnere nucleare, dirigeva lo smaltimento dei rifiuti radioattivi. Eravamo, come dite voi, ceto medio.
Poi è arrivato il 1990, la fine dell'Unione Sovietica. Prima eravamo protetti, quello che non aveva un Paese lo aveva l'altro. La Moldavia da sola è piccola e senza risorse, il potere d'acquisto dei nostri stipendi è crollato da un giorno all'altro. Ci siamo sentiti tutti senza rete di protezione, senza futuro per i nostri figli. Cominciavano a circolare le voci che si poteva andare in Europa e che in Italia si trovava subito lavoro nei ristoranti. Così ho deciso: sarei andata io. Vassilij era meglio che conservasse il suo impiego statale. Ho lasciato i miei figli che avevano 14 e 11 anni. Ma ho trovato la forza di partire giurandomi che sarei riuscita a portarli tutti e tre in Italia.
Non ho più un'identità
Anche se ero piena di curiosità, scoprivo un mondo che non conoscevo. Ho lavorato per qualche mese in un ristorante in provincia di Pisa. Eravamo in due, Alina e io, ci sostenevamo a vicenda. Ci facevamo forza per sorridere, apparire secondo l'immagine che avete voi delle donne slave: disponibili, obbedienti, servizievoli.
Ma io non avevo più un'identità: il mio diploma d'infermiera non valeva nulla, il permesso turistico stava per scadere, dovevo trovare un'alternativa.
Un cliente del locale mi disse che aveva bisogno di qualcuno che curasse sua madre.
Ho iniziato così. Con un'anziana paralizzata e il marito diabetico. Mi occupavo di tutti e due giorno e notte, avevo solo la domenica libera. Lo stipendio era buono, potevo mandare un po' di soldi a casa, e metterne da parte. Però mi pagavano in nero, e il permesso per lavoro restava un miraggio. L'unica consolazione era la rete di amiche che aumentavano di settimana in settimana, le domeniche passate ad aspettare la corriera dalla Moldavia, a scambiarci le foto dei figli e raccontarci la nostra piccola vita quotidiana.
Di casa in casa, un contratto regolare
La mia «nuova signora» si chiamava Norma, aveva 83 anni e una demenza senile progressiva, i due figli vivevano a Milano. I primi tempi della malattia erano stati terribili, girandole di persone, conflitti e problemi continui. Quando entrai nella casa della loro madre, avevano sul viso un'espressione di sgomento e di attesa. Mi dissi che potevano tirare il fiato: ero la fatina buona che veniva dall'Est.
«Ci affidiamo a te»
Con Norma ho vissuto sette lunghi anni, sono presto diventata una di famiglia. Sono riuscita a far venire in Italia prima il marito e poi i figli. Per Vassilij è stato più difficile che per me: ha trovato lavoro in un'azienda edile, molto più umile di quello che faceva in Moldavia come ingegnere nucleare, ma l'ha accettato, pur di restare con noi. Siamo riusciti a far frequentare l'università a Mario, si è laureato in Ingegneria elettronica a Pisa.
Il più piccolo, Andrean, non voleva più studiare e ha trovato occupazione in una serra, in regola anche lui.
Se guardo alla realtà di molte donne come me, credo di essere stata fortunata.
Tante hanno trovato famiglie che si rifiutavano di pagare i contributi, che davano loro poco da mangiare, che le trattavano con disprezzo e sapevano solo dare ordini. Altre che impedivano il ricongiungimento famigliare, forse per non perderle. Io ho sempre cercato un rapporto di fiducia con le famiglie. Perché nel mio lavoro le difficoltà ci sono, e riguardano le relazioni, più che i problemi materiali, quelli bene o male si risolvono sempre.
Il primo scoglio? Accettare la malattia
Non è facile con malattie croniche come la demenza e l'Alzheimer. Soprattutto per le figlie, sono loro di solito a tenere i rapporti con la badante. È una cosa che metti in conto: se una figlia non accetta che qualcun'altra prenda il suo ruolo, ti rende la vita difficile, pretende che si facciano le cose come vuole lei e ti critica in ogni occasione.
Se poi si sente in colpa perché non può o non sa occuparsi di sua madre, il rapporto può diventare complicato e molto faticoso da sostenere.
Ho sempre cercato di affrontare con dolcezza questo passaggio. Devi dimostrare alla figlia che soffre per sua madre, ed è in preda a sentimenti contrastanti, che può affidarsi a quella donna estranea e per di più straniera che ogni giorno lava, veste, imbocca la persona che l'ha messa al mondo. Che rispetta la sua fragilità senza innervosirsi. Che la mette a letto assicurandosi che i suoi piedi siano al caldo. Che l'accarezza, le tiene la mano, le parla sempre, anche se lei non le risponde, con pazienza, rispettando i suoi tempi. Che le canta in una lingua che non conosce, ma che le arriva ugualmente al cuore e la fa sorridere. Che la porta fuori quando il tempo è bello, a guardare i bambini giocare, a sentire i rumori della vita.
La gelosia che non ti aspetti
Può apparire all'improvviso perché l'anziana madre non guarda la figlia ma volge la testa dove le arriva la voce della badante, perché riconosce il suo profumo, perché cerca la sua mano. Quello, è un momento delicato, e a volte sono urla e lacrime, litigi e abbracci.
Con la figlia di Norma eravamo diventate quasi sorelle, lei mi diceva (e me lo dice ancora): «Mi hai salvato la vita».
Un giorno le dissi che potevo fare io anche i sabati e le domeniche, non era necessario che lei corresse tutti i weekend da Milano a Viareggio: bastava che venisse una volta al mese, in fondo un po' di tempo per me potevo prendermelo quando la mamma dormiva, c'erano anche le amiche ad aiutarmi. Così non doveva più telefonare all'ultimo minuto, dicendomi «Sono troppo stanca, non ce la faccio a venire» o «Devo lavorare, mi dispiace!».
La sgridavo anche perché le comprava troppi vestiti, le faceva perfino fare dei pantaloni di lino su misura, esagerata! Anche a me piaceva vestire bene Norma, metterle la collana di perle e il rossetto, prima di portarla in passeggiata sul mare. E tante volte lo facevamo insieme.
Quando l'abbiamo vestita per l'ultimo viaggio, abbiamo pianto a lungo abbracciate.
E oggi? Continuo il mio lavoro, ho curato per anni due sorelle che mi hanno fatto disperare, litigavano sempre, ora ne è rimasta una sola, centenaria anche lei.
Vassilij e io ci siamo comprati qui a Viareggio una casa affacciata sulla pineta, e siamo diventati nonni! Il figlio più grande ha un buon lavoro a Lugano, il più piccolo è l'unico della famiglia a essere tornato in Moldavia, per amore. Dimenticavo, ora sono cittadina italiana.
Silvia Balaban, 55 anni, infermiera, è di origine moldava. Vive a Viareggio con il marito Vassilij e fa la badante. Hanno due figli e un nipotino.



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