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Kaleîdos

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Numero 23 del 2021

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Il mio anno in un campo profughi
Storia di Bianca
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
«Take it. Take it. You bring it in Italy for your home». «Prendilo, prendilo. Portalo a casa in Italia» mi dice la piccola Amina. È l'antivigilia di Natale, sto per tornare a Milano dalla mia famiglia e sono passata a salutare questa bimba siriana di 6 anni cui sono legatissima.
Siamo in un container, quello in cui vive con la mamma e i tre fratelli nell'attesa di raggiungere in Germania il papà, e Amina sta cercando di regalarmi i suoi giocattoli.
«Non posso portarmi tutte queste cose. Scegline una». E lei, con le sue manine minuscole, mi allunga uno smalto rosso, brillante come il suo sorriso. Una scena dolcissima: possibile che queste persone non abbiano nulla e quel poco siano disposte a condividerlo o a regalarlo? Non mi abituerò mai. L'indomani in aereo troverò in una tasca dei pantaloni la coroncina di fiori che indossava tutti i giorni: l'ha infilata nei miei jeans di nascosto perché la portassi con me. Mi scappa qualche lacrima.
Ripenso a quando sua madre mi ha raccontato di aver partorito tre anni fa il quarto figlio in un campo profughi turco: non c'era nessuno ad aiutarla, solo il primogenito. Il bambino aveva 6 anni. È stato lui ad assisterla. Mi ero sempre chiesta che cosa avesse traumatizzato questo cucciolo troppo scalmanato e l'ho scoperto. Da quel giorno cerco di essere più paziente con lui.
Sulla scia della mamma
Faccio la volontaria nel campo greco di Nea Kavala, vicino alla cittadina di Polykastro, a un'ora da Salonicco. Ci sono arrivata nell'ottobre 2017 dopo una laurea in Economia che non mi ha convinto: l'ho trovata poco improntata al sociale. Così ho deciso di prendermi un anno per occuparmi di altro. Ho pensato subito ai rifugiati. Mia madre aveva già fatto la volontaria per due settimane all'isola di Lesbo. Si occupava di avvistamenti notturni sulla costa che guarda la Turchia. Trascorreva tutta la notte con i binocoli a infrarossi sugli occhi assieme ai Lifeguard Hellas, i bagnini greci. Era inverno. Hanno recuperato e scaldato persone in ipotermia. Hanno realizzato per loro calzature con stracci e nastro adesivo perché non avevano scarpe abbastanza grandi per i loro piedi, dal numero 45 in su. Era molto colpita e ho capito che volevo fare un percorso simile. Un amico mi ha raccontato di un progetto nato da un piccolo gruppo di ragazzi inglesi under 30.
Volevano creare una scuola e quando è stato sgomberato il campo di Idomeni, un'infinita tendopoli con migliaia di persone, sono arrivati qua. E io mi sono aggiunta. Siamo nove, allacciati l'uno all'altra 24 ore su 24.
Abitiamo a dieci minuti di auto dal campo, ma in pratica viviamo là. Io insegno inglese, lezioni divertenti e interattive perché non voglio che le abbandonino: non possono comunicare col mondo in farsi o in curdo.
Poi mi fermo a fare pulizie o vado a trovare qualche donna che magari non vedo da un po'. «Non chiedete niente. Saranno loro ad aprirsi» ci hanno insegnato durante la formazione. Ed è vero. Spesso mi invitano a pranzo: ogni settimana le cinquecento persone registrate nel campo ricevono una busta di verdure e pane più una cifra modesta con cui integrare la loro spesa. La condivisione è il momento più bello. Nelle ultime settimane sono arrivate circa duecento nuove persone e c'è molta confusione per quanto riguarda le loro pratiche per la richiesta di asilo. Arriveranno nuovi container per farli dormire.
La loro vita è in stand by
Il pomeriggio aiutiamo i profughi a trascorrere il tempo in modo sensato. Sono persone che hanno perso tutto, con traumi terribili alle spalle, sognano solo di ricongiungersi con qualche parente in Europa e per molti di loro sarà impossibile: resteranno in Grecia. Vivono in attesa dello status di rifugiati senza il quale non possono lavorare e in qualche modo la giornata deve passare. Io sono volontaria al Women's Space, lo Spazio delle Donne, che gestisco in totale libertà assieme a un'altra ragazza italiana. C'è un laboratorio di cucito per rimettere a posto gli abiti che ci donano, attività di make-up e ogni donna mette a disposizione le proprie capacità: chi fa i tatuaggi con l'henné, chi fa le sopracciglia, chi dà lo smalto, chi taglia i capelli o fa treccine. Farsi belle è un modo molto femminile per non lasciarsi andare.
La sera torno a casa con gli altri volontari e qui nasce il vero problema: non stacchiamo mai. Mai. Continuiamo a parlare di ciò che è successo durante la giornata, delle guerre che porteranno altri migranti, dei nuovi sbarchi, degli abusivi e della vita del campo. La notte dormiamo male, sonni agitati indistintamente per tutti. Sappiamo che non cambieremo il mondo e non salveremo nessuno, ma finché siamo qui ci ritroviamo in loop a fare più che possiamo per dare a queste persone la possibilità di un'esistenza dignitosa.
La mia famiglia è l'umanità
Un'altra cosa so: che non sono preparata a gestire le emergenze. Una mattina una donna si è messa a urlare in mezzo al campo. Si buttava a terra, piangeva, si strappava i capelli. Non riconosceva la figlia maggiore che è scoppiata in lacrime, ha preso per mano il fratellino e lo ha portato via perché non assistesse a quella scena straziante. Non c'erano medici. L'abbiamo portata al pronto soccorso, cercato un traduttore. Ci ha raccontato di aver assistito all'assassinio di suo cugino. L'hanno sedata. Siamo stati in ospedale quattro ore con quell'odore terribile di disinfettante e sofferenza misto a una gran voglia di piangere. Ma è stato un bene esserci: chi si sarebbe occupato di lei altrimenti?
Il 25 aprile 2018 pubblicavo su Instagram una foto del campo: una caterva di container uno sull'altro, osservando che non sembra una Festa della Liberazione.
Il primo maggio mi sono sentita dire da alcuni richiedenti asilo: «Ma che ci fate qua a lavorare? Non siete in festa?».
Così molti hanno scoperto che siamo volontari, non professionisti. E si sono commossi a sapere che gli diamo una mano per scelta e non per denaro.
Questi scambi sono i momenti in cui tutto quello che hai dato torna indietro, passa la stanchezza delle notti in bianco e la fratellanza riempie il cuore. Non riuscirò mai a capire perché le persone in Europa vedano nei migranti un pericolo. Io ogni volta che incontro una famiglia di quattro persone mi ci identifico. Penso che potrebbe essere la mia se fossi nata a un'altra latitudine.
Bianca, 24 anni, abita a Milano con la mamma e la sorella. Scout, sta finendo un master e desidera lavorare nella cooperazione.



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