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Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Kaleîdos

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Numero 3 del 2022

Titolo: Edith Bruck, sopravvissuta

Autore: Mariella Boerci


Articolo:
(da «F» n. 4 del 2022)
Aveva dodici anni quando è stata deportata. Dal lager è uscita viva, ma non era più lei: un mucchietto d'ossa con l'anima a pezzi. Il «dopo» lo ha dedicato a raccontare al mondo l'orrore della Shoah. E ad amare un poeta gentile
Dice che il Giorno della Memoria (27 gennaio) è diventato «l'invasione» della Memoria tanto che lei, quasi quasi, preferisce il ricordo di Israele, dove si rispetta un minuto di silenzio, «durante il quale il mondo sembra fermarsi».
Edith Bruck, 90 anni, scrittrice, poetessa, giornalista, meravigliosa e dolente testimone della Shoah, alla memoria non si sottrae mai. Quando l'anno scorso papa Francesco ha voluto incontrarla, colpito da quella fortissima Lettera a Dio contenuta nel suo ultimo libro, «Il pane perduto» (La Nave di Teseo), la mente di Edith non trovava una parola e lei era stata sopraffatta dal panico: «Se perdo la memoria perdo la mia stessa vita, e non è una cosa che mi posso permettere. Il mio vissuto appartiene alla Storia, a ciò che è accaduto nell'Europa del 900».
Già. Questa esile signora ha dedicato la sua esistenza alla testimonianza. Articoli. Libri. Interviste. Conferenze. Lezioni. Anche adesso che combatte contro una maculopatia che l'ha resa quasi cieca e un'artrosi al ginocchio che la trafigge a ogni passo, non si sottrae alle domande, alle richieste, agli appuntamenti, agli incontri: «Continuare a dare testimonianza per me è un dovere morale. L'ho promesso ai compagni d'inferno di cui ho raccolto l'ultimo respiro nei campi di concentramento e che mi hanno chiesto, se fossi sopravvissuta, di raccontare anche per loro».
Sono più di 60 anni che lo fa. Del resto, se anche volesse dimenticare, non potrebbe: «Da Auschwitz non si esce mai. Auschwitz è per sempre».
Il fumo del demonio
Ultima di sei figli, Edith aveva 12 anni quando fu deportata. Nel piccolo villaggio ungherese in cui abitava, nazisti e militari erano arrivati un mattino di primavera del 44, mentre lei, piedi nudi e trecce al vento, correva ignara nella polvere tiepida di sole e sua madre, in cucina, impastava pagnotte. Li avevano caricati - lei, i genitori, due fratelli e una sorella - su un treno con altre decine di persone e il pane era rimasto lì, sul tavolo della cucina. Perduto, appunto, come l'infanzia di Edith, deportata in seguito ad Auschwitz su un vagone piombato («Ancora oggi, quando mi chiudo una porta alle spalle, mi prende la paura di non poter più tornare a riaprirla») e brutalmente separata dalla madre subito dopo barrivo. L'una destinata direttamente alla camera a gas, l'altra, lei, ai lavori forzati. «La paura di perdere mia madre era il mio incubo». E l'incubo, alla fine, si era materializzato davanti al fumo nero di un camino: «Tua mamma è lì», le aveva detto una kapò indicandoglielo: «Sapone, come la mia». Il piccolo cuore di Edith si era fermato e lei, per qualche istante, aveva pensato che non riprendesse più. Invece il sangue era tornato a rifluire nelle vene («Perché è così preziosa l'esistenza in qualsiasi circostanza e a qualsiasi prezzo?») e lei aveva ricominciato a respirare, a camminare trascinando l'ennesimo morto verso le fosse comuni. Era stato lì che, dentro, qualcosa si era spezzato per sempre. Lì aveva iniziato a non essere più lei, a «non sentire più niente» per nessuno. Come ha scritto in quello che è il suo libro più intimo e doloroso, «Lettera alla madre», del 1988, che la Nave di Teseo rimanda ora in libreria con una nuova introduzione dell'autrice: «All'infuori della mia vita e di quella di mia sorella, per me non esisteva più nessuno. Mi bastava che non morissimo noi due. La morte degli altri testimoniava che ero viva. Respiravo».
La bestia nel cuore
«Eravamo mille, siamo uscite in 25». A salvare Edith e la sorella era stato il feroce attaccamento alla vita («Bisognava sorvegliare la vita h24, esserne padroni: distrarsi anche un solo istante la metteva in pericolo»), ma anche l'abitudine a un'esistenza molto dura («L'infanzia povera, dove il pochissimo aveva un valore immenso, mi ha resa più forte»). Il «dopo», in ogni caso, non era semplice. È vero, Edith era viva, ma provata dagli orrori che aveva vissuto. E la sua famiglia non esisteva più. Padre, madre, fratello e altri familiari erano morti. E lei non aveva più una casa, non aveva più la salute (era venti chili di ossa). Soprattutto non aveva idea di come ricominciare una nuova vita dopo avere provato, inutilmente, a raggiungere in Cecoslovacchia la sorella maggiore salvata a Budapest da Giorgio Perlasca, l'italiano che fingendosi console strappò migliaia di ebrei allo sterminio.
Alla fine, era andata in Israele, la Terra Promessa sulla quale aveva tanto fantasticato sua madre. Ma anche lì si era trovata di nuovo in un Paese segnato da conflitti che lei non poteva accettare. Si era sposata per evitare il servizio militare più che per amore, e dopo qualche tempo aveva lasciato il Paese e il marito, scegliendo di guadagnarsi la vita entrando in una compagnia di danzatori.
L'uomo della vita
Atene. Istanbul. Zurigo. E infine l'Italia. Quando era arrivata a Roma, nel cuore di Edith, erano scoppiati due amori: quello per la Città eterna e quello per Nelo Risi, poeta, regista e gentiluomo, fratello di Dino. Soltanto guardandolo negli occhi e prima ancora di conoscerne il nome, aveva capito che lui era «l'uomo della vita». Si erano sposati, infatti. Ed è durata sessant'anni, in salute e in malattia. «Sessant'anni di amore, di felicità, di passione, di sofferenza, di pazienza e anche di dolore, fino al suo ultimo fiato».
Nelo se n'è andato sei anni fa, devastato da una violenta forma di Alzheimer. Edith, che rifiuta la parola vedova («Mio marito è sempre qui»), racconta di avere fatto di tutto, per dieci anni, «per tenerlo in vita. Anche così com'era ridotto - non sapeva più chi era, né chi ero io - a me bastava vederlo, tenerlo vicino».
Un grandissimo amore, ma non solo. «Tenere, in vita mio marito, rimetterlo al mondo ogni volta, anche quando i medici dicevano che aveva le ore contate, ha fatto sì che riportassi in vita con lui anche tutti i miei cari». Per questo, quegli ultimi dieci anni «sono stati forse i più belli della mia esistenza».
Mariella Boerci



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