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Kaleîdos

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Numero 3 del 2022

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Ho salvato dal mare centinaia di migranti
Storia di Giuseppina
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
È svenuta, incosciente. Non so chi sia. Ha un pancione enorme. È sola, bagnata fradicia, non reagisce. Devo fare qualcosa. Sì, devo far nascere un bambino, perché questa donna è in travaglio. Non so nulla di lei, se soffre di qualche malattia, se è sana. L'ho appena tirata fuori da un barcone stracolmo di immigrati. Ora settecento persone si trovano nell'hangar della nave Settica della Marina Militare. E io, in uno spazio piccolissimo, in disparte con questa ragazza. Fa un caldo terribile, ma non ostacolerà il mio lavoro. Sono un'ostetrica. Non so più quanti bambini ho fatto nascere. Mi faccio coraggio. La spoglio, nel suo vestito c'è cucito un biglietto: «Ovunque io vada, qualsiasi cosa io faccia, il Signore è sempre con me».
Mi portano un caffè e poi un bicchiere d'acqua. È l'una di una lunga notte del 2 maggio 2015. Lei non riacquista mai conoscenza, ha problemi neurologici, ma quel bimbo o quella bimba vuole venire fuori, scalcia. L'infermiera di bordo, Giovanna Quintavilla, spinge sulla pancia. Passano sei ore, le più difficili della mia vita.
Dilatazione dieci, è il momento.
Esce, è una bambina. Non respira. Devo rianimarla, le faccio il massaggio cardiaco. Ma come tutte le femmine sa già dall'inizio che bisogna darsi da fare.
Il suo primo vagito è l'urlo di gioia di tutta la nave. Sembra di stare allo stadio dopo un gol dell'Italia ai Mondiali. La mamma, Stephanie, nigeriana di 24 anni, riprende conoscenza. Loro amano la vita. Anche se hanno occhi spenti da ore estenuanti.
E così nasce Francesca Marina. Francesca come il patrono d'Italia, il Papa e come Francesca Rava, il nome della fondazione di cui sono volontaria e che in qualche modo l'ha aiutata a nascere. È l'alba di un nuovo giorno, di un meraviglioso giorno. Pieno di speranza.
Lascio una comoda scrivania
È stato nel 2012 che ho deciso. Stanca di sentire in televisione gente che parla senza fare nulla per i migranti, contatto la Fondazione Francesca Rava, che cerca volontari per un supporto clinico sanitario nel Mediterraneo, nell'operazione Mare Nostrum.
«Sono pronta, chiamatemi quando è necessario».
Lavoro al Sant'Anna di Torino, dove nascono più di 7 mila neonati l'anno. Seppur per un breve periodo, lascio questo posto confortevole tra la sala parto e una comoda scrivania in cui magari il pensiero più complesso è: che cosa posso cucinare stasera?
Mi metto in ferie e per venti giorni vado a salvare vite umane. Saluto i miei figli, Roberto, che all'epoca ha 20 anni, e Federico di 16. Do un bacio a mio marito Pino.
Li lascio sempre con una frase di rito: «Io vado in missione, ma anche voi andate in missione, quella di sopravvivere senza la mamma, senza il bucato, senza la roba stirata, senza il frigo pieno e il letto rifatto».
I migranti non hanno scelta
Quella volta in cui è nata «la mia terza figlia», Francesca Marina, abbiamo miracolosamente salvato tutti. Settecento persone tirate su dal mare, una a una.
La fatica a volte nasconde l'emozione. Eppure il cuore batte forte quando quelle braccia si aggrappano a te. Le tue braccia sono la loro salvezza.
Le loro storie sono incredibili.
Avvocati, medici, ingegneri, provenienti soprattutto dalla Siria, che dall'oggi al domani si ritrovano a dover lasciare la loro casa per sfuggire alla guerra. Persone affermate costrette ad abbandonare tutto, partono con qualche straccio addosso. Non hanno scelta: restare e morire, o rischiare, salendo su un barcone in un viaggio della speranza. Queste sono storie di salvezza, ma anche di morte.
Non va sempre bene, purtroppo
Il 25 maggio 2017 assisto a una delle più grandi tragedie di sempre, al largo delle coste libiche. Un barcone sta affondando, non c'è molto tempo. No, non ce n'è proprio di tempo. È pieno all'inverosimile: tra loro, donne gravide con ustioni importanti, persone in coma, altre malate di varicella, tubercolosi, malaria. Pensi sempre di aver visto tutto, ma non è mai così.
«State calmi, vi salviamo».
Sembra incredibile che a meno di trenta metri da te stia capitando una cosa del genere. Una scena terribile di un film. Bambini bagnati piangono. Tiriamo su quattrocento disperati.
Molti, troppi, rinchiusi nella stiva, annegano davanti ai nostri occhi.
Impossibile sapere quanti siano. Una donna abortirà dopo dieci ore per uno shock da stress. Famiglie smembrate, genitori che non riescono a trovare i figli. Due bambini, di 11 e 14 anni, sono soli, senza nessun parente che se ne prenda cura. Un'altra donna pensa di aver perso il figlio che porta in grembo. Le faccio un'ecografia, il cuoricino batte. Mi abbraccia stretta al collo. Mi dice nella sua lingua: «Non mi lasciare».
Il dolore più grande e i sensi di colpa
Mi portano un ragazzo, avrà sì e no 16 anni. È l'ultimo che riescono a strappare da quel barcone maledetto. Sono stanca, sudata, mi mancano le forze. Sono due ore che ci portano corpi senza sosta. Gli pratico il massaggio cardiaco.
Muore.
Piango, non riesco a smettere, sono una fontana.
Gli chiedo scusa, lo abbraccio forte, gli dico che è solo colpa mia, perché sono stanca, stremata. So che non è vero, ma mi attribuisco tutte le responsabilità perché non sono lucida, non ho riposato. Lo rivesto, lo ricompongo, gli do un bacio, lo metto nel sacco. Cala il silenzio, nessuno urla più sotto quel barcone.
Sono tutti morti.
Non si è mai maturi per esperienze del genere. C'è un motivo per cui le immagini che guardiamo in tv sono diverse dalla realtà: non senti le loro voci, non vedi i loro volti, non li tocchi.
C'è il commento del giornalista. E invece varrebbe la pena, anche solo per un attimo, di sentire quelle voci. Per capire di nascosto l'effetto che fa, come diceva una canzone di Jannacci.
I loro occhi sono la cosa più trasparente, la più onesta che abbia mai visto al mondo. I loro ringraziamenti, tra le lacrime, sono quanto di più genuino esista.
Ho solo allungato una mano, non ci vuole proprio nulla. Per loro è vita.
Oggi ringrazio il cielo ogni mattina per quello che ho, perché nulla è assolutamente scontato. Io sto bene, sono in salute, ho una casa, una famiglia, un lavoro, delle certezze. Dico spesso ai miei figli: «Ragazzi, non dimenticate mai che il dono più grande che si possa avere è la vita, la vita in buone condizioni».
Eppure, non sempre la notte riesco a dormire. Mi sveglio perché sento le urla. Posso dimenticare i loro volti, scordare le loro braccia tese in avanti, ma le voci no, non posso. Mi accompagneranno per sempre.
Giuseppina Poppa, 54 anni, sposata e madre di due figli, vive a Caselette (To). Ostetrica, lavora all'Ospedale Sant'Anna di Torino.



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