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Il Progresso

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Numero 11-12 del 2010

Titolo: Storia- Italiani senza Italia

Autore: Wlodek Goldkorn e Gigi Riva


Articolo:
(da «L'Espresso» n. 46-2010)
Doveva essere una grande festa, la celebrazione dei 150 anni dell'Unità. Invece le istituzioni latitano. Il Comitato dei garanti langue. E forti si fanno le voci di chi contesta l'idea stessa della nazione. Perfino rivalutando i Borboni...
«Professore. Ma noi, cosa ci guadagnamo ad essere italiani? E’ una domanda», racconta Giovanni De Luna, docente di Storia all'Università di Torino, «che mi ha posto uno studente durante una lezione». Dall'empireo dell'ateneo culla dell'unità d'Italia al trash tv: in una puntata de «I soliti ignoti» c'è un attore travestito da Garibaldi. Alla domanda cosa facesse il personaggio presentato - la concorrente, una giovane donna - può scegliere tra tre opzioni: addestra i cammelli, fa il sosia di un eroe, possiede una discoteca. La signora non ha dubbi: l'uomo coi capelli lunghi, barba bianca e mantella rossa è un allevatore di cammelli. Memoria debole e conti di convenienza: ma allora noi italiani siamo o non siamo una nazione? L'eterna domanda ha risposte alterne a seconda di umori momentanei. Vince l'Italia del calcio ed è un tornado di bandiere tricolori. Ma appena si spengono le luci dei «circenses» e si gratta in profondità ecco che il tormentone riparte: mai così acceso, come adesso che siamo alla vigilia dell'anniversario tondo dei 150 anni. Dalle Alpi alla Sicilia è un tripudio di rivendicazioni territoriali e ogni fazzoletto di suolo ha il suo motivo di risentimento. Se è assodata l'avversione verso il centro dei «padani» e della loro voce politica, la Lega, riemerge, come un fiume carsico, una nostalgia sudista per il periodo preunitario. Il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo trova assonanze curiose col sindaco di Verona Flavio Tosi. Uniti sì, nel convergere il fuoco contro il centro, quella Roma che sarebbe ladrona anche guardata da sotto in su. Nascono partiti localisti fin dal nome (Gianfranco Micciché). E vanno ulteriormente a spezzettare quel centrodestra sempre più diviso nella rappresentazione di interessi «particulari» dei suoi elettori. Il risultato è un disagio profondo di ministri e istituzioni nel promuovere davvero e, con convinzione, le celebrazioni per i 150 anni. Disagio che si riflette in scelte, anzi in non scelte per ignavia che hanno convinto molti illustri personaggi a dimettersi dal comitato dei garanti dell'evento: l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Gustavo Zagrebelsky, Ugo Gregoretti, Marta Boneschi, Ludina Barzini, Dacia Maraini. Col Ministro della Cultura Sandro Bondi impegnato nell'improba opera di spiegare che invece il governo ci tiene eccome e sono pronti 37 milioni, 21 del suo dicastero e 16 della presidenza del Consiglio. Utili solo a finanziare un terzo delle iniziative che aveva previsto Prodi.
La politica arranca, si mostra reticente e invece l'editoria ha fiutato il business. Le librerie sono inondate di testi, la gente compra e legge. Per il resto un disastro. Perfino un'alluvione (nel Veneto) anziché occasione di solidarietà diventa pretesto per minacciare uno sciopero fiscale e urlare la rabbia. Una nazione di orfani abbandonati, sembra l'Italia. O, forse, c'è solo una cocente delusione. Prendiamo «Noi credevamo», il film di Mario Martone, che va nelle sale in questi giorni. La storia narra di tre ragazzi del Cilento che si arruolano nella Giovine Italia di Mazzini. Sono patrioti: vogliono un'Italia libera, democratica, giusta. Passano poco più di trent'anni, e uno di loro (incarnato da Luigi Lo Cascio), sale le scale del Parlamento di Torino e immagina di ammazzare l'ex mazziniano Francesco Crispi mentre pronuncia un discorso trasformista («Noi repubblicani sapremo essere più fedeli alla monarchia dei monarchici stessi»). L'unità d'Italia, suggerisce il regista, è stata fatta male. O, forse, è stata fatta in modo da far diventare anche i più puri tra gli idealisti in piccole canaglie e carrieristi, e anche in terroristi. Sognavamo il paradiso, sembra dire Martone, abbiamo costruito uno squallido inferno: perché, è la diagnosi, le élites (ma ne ha parlato già Gramsci) non hanno saputo coinvolgere il popolo.
«E’ già successo nel 1911 e 1961, per il 50esimo e il centesimo anniversario dell'Unità. Forse essere insoddisfatti del modo in cui siamo diventati e siamo nazione è la maniera di essere italiani», dice De Luna. Ma poi, spiega, c'è una differenza, tra l'allora e l'oggi: sta nell'idea di memoria condivisa. O meglio, in quello che De Luna chiama «la religione civile». Nel 1911 a contestare sono i socialisti: avrebbero voluto una Repubblica, non la monarchia. Nel 1961 i comunisti si lamentano della irrisolta questione meridionale, nonostante il boom economico sbandierato dai democristiani al potere: «Ma tutto questo sulla base della constatazione che l'esistenza dell'Italia come Stato, per quanto imperfetto, sia un bene. Nel 1911 la memoria del Risorgimento era il fondamento della vita civile, come lo era nel 1961 il richiamo alla Resistenza e alla Costituzione.



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