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Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ETS - APS

 

Corriere dei Ciechi

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Numero 9 del 2012

Titolo: ITALIA- Scuola, integrazione e disabilità

Autore: Luciano Paschetta


Articolo:
Riflessioni e proposte per superare un "modello mai nato"
Permettetemi di riprendere, a beneficio di quanti non avessero letto il mio precedente articolo "Storia di un modello mai nato", ("Il Corriere dei Ciechi" n. 2 del 2012) alcune considerazioni quale premessa per le successive riflessioni. La riconquista di un "diritto negato" Il processo di scolarizzazione dei disabili visivi, diventato "istituzionale" a partire dalla riforma Gentile del 1923, evidenzia come esso si sia realizzato attraverso l'integrazione "ante litteram" dei giovani non vedenti. La frequenza delle scuole speciali, presenti negli istituti per ciechi, era infatti limitata al primo ciclo della scuola elementare (allora fino alla terza), mentre dalla quarta elementare i ragazzi proseguivano gli studi prima nelle scuole elementari prossime all'istituto, poi nelle scuole medie della città e così fino al termine delle superiori. Il loro inserimento nelle scuole "comuni", frequentate con successo da centinaia di giovani disabili visivi, non prevedeva alcun insegnante di sostegno. Solo nel 1963, con l'avvento della scuola media unica, i ragazzi con disabilità visiva, a causa di una interpretazione surrettizia della legge, si trovarono "obbligati" a frequentare la nuova scuola media unica speciale, nata dalla trasformazione delle preesistenti scuole speciali di avviamento professionale annesse agli istituti per ciechi. Fu questo un "momento buio" del processo di scolarizzazione dei ragazzi con disabilità visiva, un momento che, senza alcuna motivazione pedagogica, sancì la "ghettizzazione" dell'insegnamento ai minorati della vista. Una delle cause di questa involuzione è da ricercarsi anche nella progressiva perdita di prestigio, quale centro di ricerca tiflopedagogica, dell'istituto Romagnoli di Roma. Senza più il suo fondatore, il grande Augusto Romagnoli prematuramente scomparso nel 1948, esso diventava sempre meno capace di continuare ad essere il punto di riferimento per sensibilizzare i "circoli culturali" e gli intellettuali sulle tematiche dell'educazione e dell'integrazione sociale dei disabili visivi e, chiudendosi sempre più in se stesso e diventando sempre più autoreferenziale, via via si emarginava dal movimento di rinnovamento culturale e scientifico della psicopedagogia che in quegli anni caratterizzava le università italiane. Quando all'inizio degli anni 70 si avviò nella scuola e nella società italiana quel grande movimento innovatore che ha nel principio dell'integrazione sociale dei diversamente abili uno dei suoi aspetti più significativi, alcuni genitori di disabili visivi, affiancati da un gruppo minoritario di psicopedagogisti non vedenti, si rifiutarono di iscrivere i loro figli alle scuole speciali, avviando così la battaglia per la "riconquista" del diritto all'integrazione. Diritto che verrà riconosciuto con la legge 360 del 1976, un anno prima della legge che sancirà il diritto all'integrazione nella scuola dell'obbligo per tutti i disabili: la legge 517 del 1977. Battaglia vinta quindi: il "diritto negato" era stato nuovamente riconosciuto, purtroppo ciò è vero solo in parte: il diritto all'integrazione riconquistato sul piano giuridico avrebbe avuto bisogno per la sua corretta realizzazione di essere accompagnato dalla necessaria riflessione pedagogica sugli aspetti peculiari che avrebbero dovuto caratterizzare il modello organizzativo di inclusione dei disabili visivi. La novità del modello di integrazione: il docente di sostegno Purtroppo però, l'inserimento nella scuola di tutti, avvenuto contro il parere e al di fuori della volontà dell'"intellighenzia ufficiale" dei disabili visivi, rappresentata in quegli anni dalla potente Federazione delle Istituzioni pro Ciechi e dalla maggioranza dell'Unione Italiana dei Ciechi, non potrà essere supportato dalle necessarie indicazioni psicopedagogiche, in quanto la stragrande maggioranza degli insegnanti specializzati e degli "esperti" di tiflopedagogia, rifugiata nell'Aventino dei loro istituti, rifiuta ogni collaborazione al processo di integrazione che vede come "il diavolo vede l'acqua santa". Parimenti, mentre l'istituto Romagnoli, arroccato nella sua "torre d'avorio" delle competenze tiflopedagogiche continua a denigrare l'inserimento scolastico e a formare nella omonima "scuola di metodo" educatori nell'ottica della istituzionalizzazione, nelle università italiane si vengono definendo metodologie innovative e didattiche inclusive, ma questo quasi sempre nell'ignoranza delle tematiche tiflologiche e delle specifiche esigenze dei disabili visivi, per le quali non vi è esperienza, né riflessione da parte della comunità scientifica. È in questo contesto che si viene definendo il "modello" di integrazione che avrà nel docente di sostegno l'elemento di novità sul quale "imperniare" il processo di inclusione. Sull'onda di questa innovazione anche ai disabili visivi inseriti nelle scuole elementari e medie viene assegnato il sostegno e quando nel 1988 la sentenza 215 aprirà le porte delle scuole superiori a tutti i disabili, i ciechi e gli ipovedenti, che da sempre e fino ad allora avevano frequentato autonomamente, si vedono affiancare il docente di sostegno, che, spesso, è privo delle necessarie competenze specifiche. Un modello organizzativo "estraneo" ai bisogni derivanti dalla disabilità visiva Il modello organizzativo di inclusione che si è venuto consolidando è "indifferenziato" in rapporto alle tipologie di disabilità, e si è "modellato" ed evoluto principalmente in riferimento ai bisogni della tipologia di disabilità che risulta essere di gran lunga maggioritaria, strutturandosi in relazione alle indicazioni della conseguente riflessione psicopedagogica che su questa si è sviluppata: la disabilità intellettiva con ritardo di apprendimento. Oltre a ciò, nel tempo, assistiamo sempre più spesso a comportamenti difformi da quanto stabilito dalla legge 517. Essa, definendo nel rapporto 1 a 4 il tempo di impiego e assegnazione alla classe del docente di sostegno, ne prospettava il ruolo quale "mediatore" tra i bisogni del disabile, il consiglio di classe ed i compagni, con una funzione di stimolo del contesto a cogliere e saper leggere i bisogni del disabile e ad attivarsi per fornire le risposte idonee al suo apprendimento. Essendo la tipologia di handicap di gran lunga maggioritaria a quella riconducibile alla disabilità intellettiva con conseguente ritardo e/o disturbi più o meno gravi di apprendimento, il modello organizzativo che si è venuto affermando è quello funzionale ai bisogni relativi, che trovano risposta negli insegnamenti e nella didattica differenziati con valutazione riferita agli obiettivi personalizzati del PEI, più o meno indipendenti (spesso addirittura estranei) agli obiettivi comuni della classe. Il modello organizzativo nel tempo si è allontanato sempre più dalla impostazione prevista dalla legge che, rispondendo al corretto concetto di inclusione, voleva il docente di sostegno assegnato alla classe a supporto (non in sostituzione) dei docenti curriculari. Questi, invece, viene sempre più spesso considerato come docente "esclusivo" del e per il bambino disabile ed a lui viene delegata la responsabilità del suo apprendimento e del processo di integrazione. Il consiglio di classe viene assumendo un ruolo sempre più estraneo al percorso educativo del bambino disabile: la stesura del PEI, la definizione degli obiettivi didattici e disciplinari, (sovente slegati dal contesto degli obiettivi della classe e quasi mai veramente definiti e misurabili), la responsabilità e la valutazione del loro raggiungimento, sono affidati quasi esclusivamente all'opera del docente di sostegno. È in questo contesto educativo che il suo numero di ore viene interpretato dai genitori (e dai giudici quando chiamati a decidere) come "l'indicatore di riferimento" a garanzia del successo formativo e del processo di integrazione. I giudici, chiamati in causa dalle famiglie che ricorrono contro lo scarso numero di ore di sostegno assegnate al loro "bambino", riconoscono in caso di grave disabilità la necessità del rapporto 1 a 1, ed in alcuni casi anche di più. Per comprendere quanto sia distorta questa interpretazione pedagogica prima e "giuridica" poi della funzione del docente di sostegno, basta pensare che essa si fonda sulla determinazione del numero di ore da assegnare, non su una valutazione della complessità del lavoro didattico, né del tempo occorrente per svolgere il lavoro didattico necessario al raggiungimento degli obiettivi educativi definiti nel PEI, ma quasi unicamente su una valutazione "socio-sanitaria", quando non assistenziale, della disabilità che si fonda sulla gravità della minorazione indicata nella diagnosi. Considerazioni sul "modello mai nato" Purtroppo questa distorsione in negativo del modello organizzativo di integrazione, non essendo mai nato un modello elaborato nello specifico per favorire l'inclusione dei nostri ragazzi, coinvolge anche i disabili visivi, prevedendo sempre l'assegnazione del docente di sostegno, ed inoltre, essendo la cecità assoluta considerata minorazione grave, ai genitori, che scontenti dei risultati dell'integrazione del figlio fanno ricorso, il giudice assegna il massimo delle ore di sostegno. È però necessario chiedersi se sia lo scarso numero di ore di sostegno la vera causa dell'insuccesso scolastico: noi siamo certi di no se, come abbiamo ricordato in tempi non lontani, i ragazzi, dalla scuola media in avanti, frequentavano con successo le comuni scuole senza bisogno del docente di sostegno. Per questo è importante cercare di comprendere se anche nella scuola di oggi, dove i disabili visivi spesso fanno fatica ad apprendere e a stare al passo con i compagni, non possa essere preso in considerazione un modello di integrazione non fondato sul docente di sostegno. La prima considerazione emerge da quanto detto fin qui: il modello organizzativo di inclusione che si è consolidato in questi anni facendo riferimento principalmente ai bisogni derivanti dalla disabilità intellettiva e dal ritardo di apprendimento, tende a generalizzare il presupposto che l'alunno con disabilità (a prescindere dalla tipologia) non riesca a raggiungere gli obiettivi comuni, ma necessiti di un piano educativo individualizzato e, conseguentemente, di un docente di sostegno. Anche per questo, il modello di inclusione si è "incardinato" sempre più sul rapporto tra alunno e docente di sostegno, e delegando a quest'ultimo le responsabilità dell'apprendimento, tende a escludere gli insegnanti curriculari dal loro ruolo di docenti nei confronti del ragazzo disabile e, interponendosi tra loro, ne ostacola anche la comprensione delle modalità di "comunicazione e relazione". La tendenza a riferire la disabilità al ritardo di apprendimento fa spesso dimenticare che il ragazzo con disabilità visiva, è dotato di normali capacità di apprendimento ed è assolutamente in grado, se dotato dei giusti strumenti, di seguire con profitto le lezioni e di partecipare al lavoro didattico comune. La presenza di un docente di sostegno, quasi sempre con poche (se non nulle) competenze in tiflopedagogia e con vaga conoscenza degli strumenti tiflotecnici e dei sussidi tiflodidattici, non sapendo educare l'alunno all'autonomia personale, né essere capace a predisporgli i materiali didattici necessari a permettergli di seguire con profitto le lezioni del docente curriculare, fornendo a quest'ultimo le informazioni necessarie per una corretta relazione con lui, anziché "facilitare" il processo di integrazione ne diventa un ostacolo: egli si è "sovrapposto" al disabile visivo nel rapporto con compagni e docenti, gli ha impedito di "crescere" e di diventare autonomo nel suo operare quotidiano: non è difficile incontrare ragazzi di scuola media e/o superiore che non possiedono un metodo di letto-scrittura diretta, che non sono capaci di muoversi autonomamente all'interno dell'aula e della scuola e che, negli intervalli, se ne stanno in un angolo con il docente di sostegno. Per questi soggetti poco servirà ricorrere al giudice per aumentare il numero delle ore di sostegno per garantirne il successo formativo. Abbiamo accennato alla generale scarsa competenza specifica dei docenti di sostegno: è questa una delle cause principali dell'insuccesso scolastico e della mancata inclusione dei disabili visivi. Egli, se non competente, non può svolgere un ruolo attivo di mediatore tra i bisogni del ragazzo ed i docenti di classe, né può stimolare l'ambiente a comprendere le modalità di relazione positiva con il disabile visivo e ne diventa di fatto la "balia". Con il suo atteggiamento protettivo ostacola, anziché favorire, lo sviluppo delle sue autonomie personali, di movimento e di lavoro. Sul piano della formazione dei docenti, forse anche per esorcizzare lo spettro delle scuole speciali, si è voluto per comodità imboccare la strada della "polivalenza" quale unica modalità formativa idonea a garantire il successo dell'inclusione, ma, anche in questo caso, via via abbiamo assistito alla progressiva eliminazione degli insegnamenti specifici: a partire dal 1995 con il DM 226 prima e presso le Sis dopo, fino ad arrivare al decreto 249 del 2011 di prossima attuazione, gli insegnamenti specifici sono quasi (se non del tutto) scomparsi, con conseguente aumento degli insuccessi scolastici e dei percorsi di integrazione. Un bisogno di specificità A questo punto mi si dirà che sono il solito pedagogista cieco che rivendica gli insegnamenti tiflopedagogici specifici, dimenticando che il cieco disabile visivo è prima un bambino poi un non vedente, che l'educazione si rivolge allo sviluppo della persona e non può focalizzarsi sulla minorazione, per arrivare a dire che solo i ciechi ed i sordi, storicamente hanno avuto un percorso specifico, mentre tutti gli altri disabili sono stati sempre accomunati, e così via. La formazione polivalente, ossia una informazione generale che, stante le sempre meno ore degli attuali percorsi formativi di specializzazione, rischia di diventare generica, sarebbe utile ai docenti curriculari perché potessero farsi carico, così come dovrebbe essere, dell'insegnamento ai disabili inseriti nelle loro classi, ma è assolutamente inutile per quel ruolo di "mediatore" di cui abbiamo accennato sopra, che dovrebbe svolgere il docente di sostegno. I sostenitori ad oltranza della polivalenza ci "accusano" di "retroguardia" dicendoci che solo i disabili sensoriali hanno avuto nel tempo percorsi formativi specifici, quasi questo sia stato un errore del passato, da non ripetere e, soprattutto, da non rivendicare perché, diversamente, bisognerebbe dare risposta anche alle richieste di specificità provenienti dalle organizzazioni di genitori dei ragazzi down, autistici, dislessici, ecc. Senza voler entrare, in questa sede, più nel merito del problema, mi limito a ricordare che costoro sembrano ignorare i progressi fatti dalle scienze psicologiche e dalle neuroscienze in questi ultimi anni in merito alle conoscenze specifiche alle diverse disabilità intellettive e alle relative modalità di approccio e di relazione positiva con i singoli soggetti. Ignorare le richieste che arrivano dai genitori di ragazzi con disabilità visiva, e non solo, che vedono la mancata "crescita culturale" dei loro ragazzi, vuol dire non dar retta al "campanello di allarme" che ci avvisa che questo nostro modello di integrazione, fondato sulla miglior legislazione d'Europa, ma che spesso non produce gli effetti proclamati, è in pericolo. Per rimanere sui problemi dei nostri ragazzi e delle loro famiglie: attualmente noi abbiamo un insegnante di sostegno che possiede le conoscenze generali per sapersi relazionare positivamente con il ragazzo disabile, conoscenze utili a svolgere magari un buon lavoro di "maternage", ma del tutto inadeguate per svolgere un intervento didattico efficace mirato ad ottenere dal disabile visivo quanto più possibile sul piano dell'apprendimento e su quello della relazione con l'ambiente; per chiarire perché l'attuale modello organizzativo sia certamente inadeguato per l'inclusione dei ragazzi con disabilità visiva, mi rifaccio alle mie conoscenze relative alle molte situazioni di scolarizzazione di cui sono a conoscenza. Al bambino inserito a scuola, quasi sempre viene assegnato un docente di sostegno che non ha competenze di tiflopedagogia e non conosce i sussidi tiflotecnici e tiflodidattici. Se siamo all'inizio di un ciclo elementare come farà ad apprendere un sistema di letto-scrittura autonomo? Quand'anche il docente si affrettasse per imparare il braille, saprà capire che il metodo che ha usato lui per impararlo, non è quello che gli servirà per insegnarlo al bambino? Quali suggerimenti potrà dare ai docenti curriculari circa l'uso delle immagini e dei colori nel lavoro didattico? Come fare ad educarlo all'autonomia di movimento, ad insegnargli ad esplorare l'aula, ad andare ai servizi da solo? Eppure quel ragazzo ha capacità di apprendimento normali, il problema sta solo nel fatto che qualcuno conosca gli strumenti idonei per consentirgli di "comunicare" con il contesto. Lasciato senza indicazioni, inevitabilmente, dopo qualche mese egli comincerà ad avere un ritardo di conoscenze che se non colmato si trasformerà in ritardo di apprendimento, non perché egli fosse "incapace", ma perché nessuno ha saputo fornirgli gli strumenti per dargli "pari opportunità" per imparare a leggere e scrivere e per "comunicare" con gli altri, e gli altri con lui, in modo idoneo. Un esempio per tutti: se il docente di sostegno non conosce il braille, il bambino non potrà imparare un modo autonomo di scrittura e di lettura e, necessariamente, non riuscirà a seguire il lavoro didattico della classe e, pian piano il divario con i compagni aumenterà. I genitori e i docenti della classe, preoccupati, l'anno successivo richiederanno un incremento delle ore di sostegno, il che farà lievitare la spesa, senza però migliorare il servizio. Questa la situazione di molti ragazzi con disabilità visive inseriti nelle nostre scuole e le principali cause del loro disagio e delle loro difficoltà di apprendimento. Una risposta concreta Come si vede per garantire il successo al processo di inclusione dei ragazzi con disabilità visiva, manca un intervento capace di fornire gli elementi conoscitivi specifici al contesto perché possa diventare "accogliente" nei suoi confronti, così da consentirgli "pari opportunità" di accesso e che, nel contempo, sia in grado di fornirgli tutti gli strumenti e i suggerimenti utili al raggiungimento della sua autonomia personale, di movimento e nel lavoro didattico. Si tratta di una figura capace, non tanto di intervento educativo o didattico, ma in grado di fornire un supporto "tecnico specifico" rivolto al disabile ed al "contesto" (docenti curriculari, personale Ata, compagni, ecc.), per mettere il non vedente in grado di muoversi ed orientarsi nell'ambiente, di comunicare con gli altri e di possedere gli strumenti per un autonomo lavoro didattico e, contemporaneamente, di sensibilizzare gli altri (docenti e compagni) a "sapersi relazionare con lui in modo positivo e a saper leggere" i suoi bisogni di aiuto. Come spesso avviene nella legislazione italiana non c'è una nuova legge da scrivere, né una nuova figura da inventare, basta far emergere dal "limbo" e chiedere la presenza nella scuola dell’"assistente-facilitatore" della comunicazione, figura prevista dall'art. 13 comma c della legge 104 del 1992, la sua presenza consentirebbe di ridurre al minimo le ore del docente di sostegno (se non soprattutto nelle superiori, di eliminarle). Prima, però, occorre riprendere la norma, per definire il "profilo" professionale e il percorso formativo di questa figura. L'Irifor con l'Università La Sapienza di Roma ha cominciato a farlo progettando il primo Master per "Assistente-facilitatore alla comunicazione e all'autonomia personale per disabili sensoriali" che verrà realizzato nell'anno accademico 2012-13.



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