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Corriere dei Ciechi

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Numero 2 del 2019

Titolo: RUBRICHE- Una finestra sul sociale

Autore: a cura di Fabio Piccolino


Articolo:
A proposito di Sanremo

Se dovessimo raccontare a chi non ha seguito, per scelta o per motivi propri, la sessantanovesima edizione del Festival della Canzone Italiana, non potremmo prescindere dai polveroni e dalle polemiche che hanno caratterizzato il prima, il durante e il dopo Sanremo 2019. Può sembrare paradossale se la consideriamo soltanto una semplice gara canora con un bel po’ di anni sulle spalle, meno se se ne conoscono le dinamiche. La verità è che si tratta dello spettacolo pop per eccellenza, e quello che accade intorno e dentro al teatro Ariston è da sempre lo specchio dei tempi, il racconto della società italiana attraverso la sua manifestazione più popolare.
È per questo che in un momento di tensioni sociali e di forte contrapposizione politica, ogni azione sembra avere la sua conseguenza.
Si potrebbe partire dall’inizio, con la discussione sulla posizione assunta dal direttore artistico Claudio Baglioni durante la conferenza stampa di presentazione della rassegna, già nei primi giorni di gennaio: in molti non hanno digerito le sue parole riguardo alle ultime politiche migratorie dell’Italia, in particolare su quella delle persone costrette a rimanere per molti giorni a bordo delle navi delle Ong in attesa di poter sbarcare in un porto sicuro. Baglioni aveva parlato di "un paese incattivito e rancoroso nei confronti dell’altro che guarda con sospetto anche la propria ombra", e subito si erano scatenate le reazioni politiche e i commenti feroci.
Oppure si potrebbe iniziare dalla fine, dalla polemica paradossale per il primo posto conquistato da Mamhood, vincitore contestato più che per la qualità del brano presentato in gara, per le sue origini egiziane che secondo i detrattori avrebbero favorito il voto delle giurie degli esperti a discapito del giudizio popolare che aveva invece incoronato Ultimo.
Intolleranza in salsa Sanremo che diventa nuovo terreno di scontro tra detrattori e sostenitori del giudizio finale della kermesse: pensare che l’affermazione di un ragazzo assolutamente italiano ma con un cognome arabo sia il segnale di una qualche integrazione, è il segno che ancora una volta stiamo guardando il problema dalla parte sbagliata. La vittoria di Mamhood non ha nessun valore politico o sociale ma rappresenta l’ennesima contrapposizione ideologica che fa perdere di vista il senso del reale.
In molti poi hanno puntato il dito sul criterio di valutazione, che unendo i numeri del televoto a quelli della giuria della sala stampa e a quelli degli esperti, avrebbe sfavorito la volontà popolare.
Ma il regolamento, chiaro a tutti fin dall’inizio della manifestazione, non può essere piegato alle esigenze dei concorrenti o di risvolti inaspettati. Né, cosa ancor più grave, si può delegittimare il ruolo di una giuria di qualità, lasciando sottintendere che il merito, la preparazione e l’autorità siano da reprimere e condannare e che i saperi e le conoscenze siano improvvisamente meno importanti dei desideri del pubblico da casa.
Discussioni che hanno avvelenato il dibattito e che in parte hanno messo in secondo piano il senso della gara e il valore artistico della manifestazione.
Sanremo 2019 ha espresso a suo modo una fotografia della musica italiana se non del tutto a fuoco, in parte rappresentativa del momento attuale. Perché accanto ai classici sanremesi (Loredana Bertè, acclamata dal pubblico, Patty Pravo in coppia con Briga, Il Volo, Anna Tatangelo) e ad artisti abituati a calcare quel palcoscenico (Arisa, Francesco Renga, Nek), c’è stato il tentativo di avvicinare il pubblico dei più giovani (Achille Lauro, anche lui non esente da critiche e polemiche per il suo pezzo "Rolls Royce", Ultimo e il suo contestato secondo posto) e della musica che fino a qualche tempo fa era estranea ai grandi circuiti discografici (Motta, Zen Circus, Ghemon, Ex-Otago).
Alcuni artisti hanno deciso di analizzare in maniera più o meno diretta temi sociali. Lo hanno fatto molto bene Daniele Silvestri e Rancore che con la loro "Argentovivo" hanno affrontato l’alienazione delle giovani generazioni, con testo e atmosfere d’impatto. «Avete preso un bambino che non stava mai fermo, l’avete messo da solo davanti a uno schermo, e adesso vi domandate se sia normale se il solo mondo che apprezzo è un mondo virtuale» è probabilmente il passaggio più significativo.
Ci sono gli abusi in famiglia raccontati da Irama ne "La ragazza dal cuore di latta", le riflessioni e il senso di smarrimento di un migrante, messe in scena da Motta con la sua "Dov’è l’Italia", il flusso di parole degli Zen Circus e della loro "L’amore è una dittatura", che è un’amara fotografia della realtà odierna («Siamo delle antenne, dei televisori, emettiamo storie che fanno rumore. Cerchiamo la donna della vita o l’uomo della morte, strade interrotte, eterni sorrisi, figli sangue del nostro lavoro»).
Musica per raccontare il presente: probabilmente è proprio questo che il Festival dovrebbe rappresentare ma che puntualmente diluisce il proprio potere comunicativo in un contorno troppo vasto.



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