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Corriere Braille

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Numero 34 del 2019

Titolo: Benessere e disabilità: quale il ruolo dello psicologo?

Autore: Katia Caravello


Articolo:
Relazione tenuta al Convegno Nazionale Cnop «Psicologo: un professionista moderno al servizio del Paese» (Roma, 20 giugno 2019)
Le persone con disabilità sono innanzitutto persone e, come tali, si trovano ad affrontare le difficoltà e i problemi di qualsiasi individuo e non necessariamente essi sono direttamente connessi alla condizione di disabilità con la quale convivono quotidianamente. Nonostante tutto ciò, però, è innegabile che la disabilità ponga le persone di fronte ad ostacoli peculiari e che ciò influisca negativamente sul loro benessere psicologico. In questo contesto, quale ruolo ha lo psicologo?
Il primo passo è sicuramente quello di lavorare sul piano individuale. È infatti fondamentale che la persona si percepisca in maniera positiva - quindi abbia una buona autostima - e che senta di avere il potere di decidere della sua vita (senso di autodeterminazione). Coloro che hanno una disabilità spesso soffrono, tra l'altro, perché si sentono di non essere in grado, o di non essere più in grado, in caso di disabilità acquisita, di svolgere le normali attività della vita quotidiana. Con il tempo tale sofferenza si trasforma in senso di inutilità e fa sì che la persona diventi sempre più dipendente dagli altri. Promuovere l'autonomia delle persone con disabilità è quindi un passaggio fondamentale per innescare un circolo virtuoso, che abbia una ricaduta positiva sull'autostima e, quindi, sul benessere della persona. Fornire all'individuo gli strumenti e le capacità per divenire quanto più possibile autonomo non è diretto compito dello psicologo - i corsi abilitativi e riabilitativi che hanno tale scopo sono tenuti da tecnici specificamente formati (ad esempio istruttori di Orientamento e Mobilità e di Autonomia Personale e Domestica) - quello che egli può fare è affiancare l'operatore specializzato ed accompagnare la persona lungo tutto il percorso, sostenendolo nei momenti di maggiore difficoltà ed aiutandolo ad esplorare ed elaborare i vissuti emotivi da esso suscitati. I percorsi abilitativi e riabilitativi, però, possono avere pienamente successo solo se a priori la persona ha accettato la propria condizione di disabilità e i limiti da essa derivanti. Nonostante tutto l'impegno dell'individuo e di chi lo circonda, non tutte le limitazioni conseguenti ad un'invalidità sono superabili ed ignorare questo fatto non fa bene a nessuno (persona con disabilità in primis), l'impegno e la forza di volontà non sono sempre sufficienti per superare qualunque ostacolo, quanto meno non nella stessa misura e con le stesse modalità di tutti gli altri. Se non si parte da questo presupposto, il rischio è che la persona con disabilità si concentri su ciò che non può fare o non può più fare, ignorando i benefici derivanti dai risultati raggiunti grazie ai corsi frequentati. Lo psicologo ha il delicato compito di accompagnare la persona in questo processo di accettazione, passaggio difficile, sia in presenza di disabilità congenita che acquisita, ma che abbiamo visto quanto sia determinante per avere una buona qualità di vita.
Ma lavorare solo con la persona con disabilità non è sufficiente... bisogna intervenire sul contesto. È ormai consolidata a livello internazionale l'idea della disabilità come frutto dell'interazione tra le condizioni di salute dell'individuo e l'ambiente fisico e relazionale in cui egli vive. Abbiamo detto che il punto di partenza per giungere al successo di qualsiasi tipo di intervento è l'accettazione da parte della persona della propria condizione di disabilità, ma ciò non è sufficiente a garantire il suo stato di benessere psicologico: perché ciò si verifichi è indispensabile che anche chi lo circonda - soprattutto genitori e familiari - lo accettino. L'eccessiva ansia per l'incolumità e la conseguente iperprotettività di un genitore nei confronti di un figlio o di una figlia con disabilità, facilmente, porterà ad impedire a quest'ultimi di fare delle esperienze in autonomia e persino di mettere in pratica le abilità e le capacità acquisite nei percorsi riabilitativi. Non è difficile comprendere come ciò renda tutto più faticoso al ragazzo o alla ragazza che, anche a costo di tanto sforzo, vuole diventare autonomo e staccarsi dalla sua famiglia per crescere insieme ai propri coetanei. In casi estremi, questo atteggiamento genitoriale ha come esito l'inibizione totale del desiderio di far da sé... sempre ammesso che tale desiderio abbia avuto la possibilità di farsi strada nella mente dell'adolescente... perché purtroppo questo non sempre accade. Le ragioni alla base di questo comportamento da parte dei genitori possono essere molteplici, una delle più frequenti è il senso di colpa - nella quasi totalità dei casi del tutto ingiustificato - che fa sì che i padri, ma soprattutto le madri, siano indotti ad evitare al figlio qualsiasi situazione che gli comporti fatica o che gli faccia correre anche un minimo rischio... senza ovviamente rendersi conto di quanto ciò provochi più danni che benefici. Lo psicologo deve quindi creare un'alleanza anche con i genitori e la famiglia in generale - fratelli e sorelle compresi - per far sì che essi abbiano la possibilità di esplorare i propri vissuti in relazione alla disabilità del proprio figlio o familiare, arrivando ad accettarla e a superare le proprie ansie e paure. Un lavoro a questo livello è importante per promuovere il benessere delle persone con disabilità tanto quanto il lavoro con la persona stessa... anzi, in taluni casi anche di più perché non è infrequente che riescano ad accettare la propria disabilità, ed avere una vita soddisfacente, più facilmente i diretti interessati rispetto a coloro che li circondano. Lo stesso discorso vale quando la disabilità insorge in età adulta o anziana e sono i figli od altri familiari ad essere iperprotettivi o iperansiosi. In tutti questi casi, lo psicologo deve aiutare i familiari, non solo a elaborare i propri vissuti interiori, ma anche a vedere il proprio figlio, genitore o congiunto in genere, innanzitutto come una persona e considerare la disabilità solo come una delle caratteristiche che lo contraddistinguono... non l'unico elemento che lo definisce.
Sino ad ora mi sono riferita alle persone con disabilità nel ruolo di clienti-pazienti, ma prima di concludere vorrei soffermarmi brevemente sull'eventualità in cui sia il terapeuta, o anche il terapeuta, ad avere una disabilità, magari proprio la stessa del proprio cliente-paziente. Cosa accade in questo caso?
Condividere la condizione di disabilità è sicuramente un valore aggiunto perché consente di comprendere maggiormente ciò che il nostro cliente ci sta portando, ma è anche un rischio da tenere ben presente. Se è pur vero che con qualsiasi cliente c'è il rischio di farsi coinvolgere emotivamente e di confondere i propri sentimenti ed emozioni con i suoi, quando si condivide la stessa condizione di vita, il rischio aumenta esponenzialmente. Utilizzando la terminologia di Carl Rogers, è più che mai importante in questi casi essere congruenti e fare buon uso della trasparenza. In parole semplici, è importante essere in contatto con i propri sentimenti per saperli distinguere da quelli del proprio cliente e, quando si ritiene funzionale condividere con lui un pezzo della propria esperienza di vita, limitarsi a far riferimento a questioni ormai chiuse, che non rappresentano ferite aperte... altrimenti il rischio è quello di uscire dal ruolo di terapeuta e di sconfinare in quello amicale o di consulente alla pari, perdendo la conduzione del colloquio. Nell'Approccio Centrato sulla Persona di Carl Rogers, non si usa il termine «paziente», ma quello di «cliente». La consulenza alla pari è una tipologia di intervento valido, ma diverso dalla consulenza psicologica o dalla psicoterapia, con setting ed obiettivi differenti, ed è importante non fare confusione tra di esse; un tipo di intervento non esclude l'altro, ma devono essere portati avanti in spazi e tempi distinti.



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