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Kaleîdos

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Numero 22 del 2020

Titolo: Donne coraggiose

Autore: Redazionale


Articolo:
Dieci ore al buio sotto le macerie
Storia di Alexandra
(tratto da «Coraggiose» a cura di Silvana Gavino - Cairo Editore)
«Siamo quasi arrivati.» È il 20 agosto ma quassù a Pescara del Tronto fa fresco. Trascino il trolley per i vicoli e già sento l'odore di casa, delle risate, di quando, bambini, trascorrevamo qui tutte le vacanze estive, da giugno a settembre. «Lì giocavo con la mia amichetta Sara a saltare l'elastico. In quel tombino, invece, facevamo il calcio barattolo» racconto ai figli del mio amico Stefano. Quest'anno ho lavorato tanto. Non solo teatro, ma anche fiction e lezioni di recitazione.
«Ricordi quando da piccola volevi fare la ballerina?» mi chiede ogni tanto mia madre, Ada. È guardando lei che recitava le poesie di Trilussa che invece ho iniziato a sognare di diventare un'attrice. Una carriera non facile: la prima volta in palcoscenico ero terrorizzata. Con il tempo, però, ho capito che la paura si supera con la preparazione. E quest'anno ho uno spettacolo in cui porto addirittura sei personaggi in scena tutti da sola.
Ma avevo proprio bisogno di passare qualche giorno qui, nella casa che era dei miei nonni, in questo paesino arroccato sui Monti Sibillini, alle spalle di Ascoli Piceno, dove la notte senti solo il rumore della fonte che scorre giù per la valle.
Ogni estate ci ritroviamo tutti, anche con zii, cugini e porto spesso qualche amico.
«È arrivata Alexandra». Il sorriso di papà Marino con la fisarmonica in braccio mi illumina il cuore. È un attimo e sono di nuovo bambina.
Il boato poi il crollo
Che peccato! Mio fratello Marcello è già rientrato a Roma ma questa sera c'è la festa in piazza con le ballerine di danza del ventre. Ridiamo fino all'una di notte e scatto foto bellissime.
Sono troppo stanca per mandarle a tutti. Lo farò domani, che può succedere mai? penso mentre mi butto a letto. È un attimo e dormo. È un attimo e il 24 agosto il mondo crolla.
Apro gli occhi all'improvviso, ma vedo solo buio.
Aria, mi manca l'aria. Sono bloccata, non mi muovo. Forse grido, forse no. È un incubo. Non può essere che uno strano incubo. Provo a dormire, magari passa.
«Bella di papà, ci sei?». Ma come, sono ancora qui? Ma che incubo è?
«Ale, ci sei?». La voce di mio padre arriva da qualche parte, ma ho la bocca piena di polvere e non riesco a rispondere.
Sopra di me, travi e macerie.
«Menomale che questa casa era antisismica» riesce a ironizzare lui. Ora capisco: c'è stato un terremoto ed è crollato tutto. La mia stanza è sprofondata nella cucina e siamo sepolti sotto la casa.
Sento passi di scarponi.
«Qui ci dev'essere una donna con i genitori e un papà con bambini».
Siamo in due mondi paralleli: noi sotto, loro sopra.
«Prima i bambini» risponde un'altra voce.
Va bene, non è il mio turno. Comincio a recitare Nammyohorengekyo, un'invocazione buddista.
«Torneranno» mi dico. E infatti dopo un tempo infinito riconosco la voce di mia cugina. «Dovrebbero essere qui» dice. Papà, perché non ti fai sentire? Proprio adesso dormi? No, i passi se ne vanno una seconda volta. E c'è anche odore di gas. È finita. Allora fammi morire. Fa che mi prenda un infarto.
«Alexandra, resisti, ti abbiamo trovato».
All'improvviso dal buio si apre uno spiraglio di luce. Due mani impolverate, poi quattro, sei. «Le gambe sono sotto la trave» gridano. Due gradi occhi azzurri sorridono dietro una mascherina. «Fammi morire» sussurro.
«Ma che morire, dopo tutta questa fatica per trovarti?».
La lunga strada verso la vita
Dieci ore sono rimasta là sotto, sepolta da due metri di macerie. Il paese non esiste più. Chi non era stato travolto è riuscito a fermare una macchina dei pompieri lungo la strada e li ha trascinati in quell'ecatombe. Hanno scavato nel buio, a mani nude, senza una mappa e senza neanche sapere chi cercare. Mio fratello è tornato da Roma, ma lentamente, con la calma di chi sa che troverà solo l'inferno. Ha riconosciuto casa dal rosa delle pareti della mia stanza. Stefano e i bambini sono usciti dopo quattro ore e stanno bene, per fortuna.
Io, che il giorno prima non avevo voluto neanche provare i giochi del parco avventura, mi ritrovo in volo d'emergenza sull'elicottero, diretta all'ospedale di Ancona con la dottoressa dagli occhi azzurri.
Ho tutto rotto, le ossa, gli organi interni. E non ho il coraggio di fare quella domanda a mio fratello.
«Se hai paura della risposta, aspetta» mi dice lui.
In cuor mio lo so già: mamma non ce l'ha fatta e papà ha resistito solo fino alla luce, quasi volesse essere sicuro di tenere in vita me.
Inchiodata immobile a letto, conto e riconto i bulloni della lampada sul soffitto. Poi un giorno riesco a inclinare un po' la testa e vedo anche dall'altro lato. È il primo atto d'indipendenza del mio corpo dopo quello che è accaduto.
Concentro tutte le mie energie su tre cose: respirare, mangiare, liberarmi. In quei giorni conosco Milena, una dottoressa che da allora come un angelo mi è sempre accanto. Poi mi trasferiscono al Santa Lucia a Roma. Dopo sette-otto mesi, quando le ferite si sono finalmente chiuse, la prima doccia: per la prima volta sento di nuovo l'acqua addosso. Ed è festa quando sulla sedia a rotelle posso finalmente uscire dalla stanza.
Vivo a mille perché nulla è scontato
È passato ancora un altro anno. Con un lavoro durissimo e doloroso lentamente mi sono rimessa in piedi. Cammino, anche se una gamba non la sento ancora e non ho tutte le risposte che cerco. Sotto quelle macerie ho perso quarantasette persone, tra parenti e amici. Tanti sopravvissuti si sono ammalati nel tempo, di dolore, di sensi di colpa.
Io invece penso che dobbiamo vivere per rispetto a chi non ce l'ha fatta e a chi ha faticato tanto per salvarci.
Sono tornata ad Ancona per ringraziare pompieri, infermiere, chirurghi. Ho rintracciato anche la dottoressa dagli occhi azzurri. Si chiama Cristiana.
Un'azienda nel frattempo mi ha assunto. Come lavoratrice disabile appartengo alle categorie protette. All'inizio portavo solo i caffè, ma ho imparato a usare il computer e sono arrivata in amministrazione. Ho vinto anche un provino per una piccolissima parte nel film Vivere di Francesca Archibugi.
Quando ho riso di nuovo per la prima volta, di quelle risate di gusto, ho sentito una sensazione di sblocco e leggerezza liberatoria. Ho capito il meraviglioso potere che abbiamo di far gioire e sognare il pubblico.
Sono tornata in palcoscenico. E forse un giorno troverò anche il coraggio per scrivere di quello che mi è accaduto.
Alexandra Filotei, 51 anni, attrice, è nata e vive a Roma. Ha recitato in teatro e in serie tv come La squadra e Un medico in famiglia. Oggi è impiegata in una grande azienda.



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