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Corriere dei Ciechi

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Numero 5 del 2021

Titolo: ATTUALITÀ- Salviamo le nostre tradizioni

Autore: Cristina Minerva


Articolo:
Il percorso intrapreso per ricordare e far riemergere il nutrito bagaglio degli antichi giochi, che hanno adornato le giovani generazioni dei tempi lontani, ben presente in chi ci ha narrato il proprio documentato emozionante trascorso ludico, si arricchisce in questo capitolo di attività, che per la ricchezza delle sensazioni ci induce a una condivisione della piacevole memoria.
Il castello dei noccioli
I giochi dei nonni prendevano spunto, molto spesso, dagli oggetti reperibili nell'ambiente circostante.
Nella stagione delle albicocche e delle pesche erano questi frutti a offrire il materiale necessario e così si poteva giocare con frequenza al gioco "di osci" (degli ossi) o "de osse" (delle ossa).
Non si trattava di un gioco macabro come il termine suggerirebbe, ma di una prova di abilità, con l'uso, appunto, dei noccioli delle pesche e delle albicocche. I semi, forse per la loro collocazione interna, prendevano un nome, ossa, sicuramente più adatto all'anatomia.
Il gioco de osse era praticato dai genovesi adulti (forse sottoforma d'azzardo) già nel secolo XVI; lo nomina, in un sonetto, Paolo Foglietta, (1520 - 1596), nobile di solidi principi, che fustigò nei suoi scritti i costumi rilassati del suo tempo, attaccando soprattutto i "cangi", ossia l'usura, il prestito ad interesse, su cui si basava ormai l'intera economia genovese di allora.
I ragazzini dei primi decenni del secolo scorso conservavano "e osse" per sfide più innocenti e ogni bambino ne possedeva una certa quantità.
Oggi, nell'epoca degli sprechi gratuiti, si stenta a credere alla necessità di trasformare quello che si considera un rifiuto in un motivo di divertimento. I nonni, comunque, con i noccioli in tasca, si sentivano, allora, molto ricchi.
Il gioco era diviso in due parti. All'inizio ogni giocatore scagliava il proprio seme contro il muro e chi riusciva ad avvicinarsi maggiormente al muro stesso aveva il vantaggio di giocare per primo.
Ogni partecipante costruiva, nel frattempo, un "castello", cioè una piramide composta da tre noccioli per base e uno a formare il vertice superiore. A turno, si lanciava con forza un nocciolo (oscio) sui castelletti (callai) degli antagonisti.
Poteva succedere che i noccioli fossero scarsi; allora si faceva la base con sole due osse e la piramide prendeva il nome di callao bastardo, il cui significato questa volta è abbastanza comprensibile (castelletto incompleto). Chi riusciva ad abbattere il bersaglio conquistava i noccioli relativi e, il bottino maggiore, decretava, alla fine, il vincitore.
Il gioco si faceva anche con le noci, nel periodo adatto, e i più scaltri e quelli che ne avevano l'opportunità, riempivano l'interno dei gusci con piombo fuso per "armare" e rendere invincibile il proprio gruzzolo.
Il valore di quel piccolo tesoro non è calcolabile al giorno d'oggi e non è paragonabile ad alcunché. Fa riflettere la scala di valori enormemente distante fra ciò che ha importanza per un bambino e quella che preme a un adulto. Il valore non è determinato, comunque, dal costo ma dall'importanza che l'oggetto assume simbolicamente per ognuno di noi.
Questo gioco era noto al tempo dei Romani sotto l'appellativo di "ludere castellum mucum". In tempi meno lontani lo si poteva trovare in alcune regioni italiane con vari nomi. In Toscana era chiamato Caselle capannelle o castelline, a Napoli le castella, in Sicilia aveva il nome di munzeddu.
Ci si può soffermare un momento a chiedersi se avranno trovato più gusto i bambini di allora con il "castello dei noccioli" o i nostri figli, oggi, con lo sguardo incollato allo schermo freddo del loro video, fra i meandri di un castello infestato da nemici virtuali.
Il gioco delle biglie
Nelle storie di ordinaria quotidianità poteva accadere che i ragazzini si occupassero di giochi, che richiedevano l'uso delle biglie.
Il possesso di questi piccoli oggetti preziosi per la loro bellezza e il loro valore intrinseco era una conquista di non facile realizzazione.
Le "biglie", vale a dire sferette di piccole dimensioni, erano solitamente di vario materiale e di diverso valore, ma quelle più ambite erano sicuramente quelle di vetro, generalmente colorate, impreziosite con decorazioni interne, che mettevano in risalto bagliori e tonalità quasi caleidoscopiche.
I giochi che hanno caratterizzato l'infanzia dei liguri più anziani erano: il gioco delle biglie in buca (o gaicio), delle biglie nel triangolo, delle biglie al palmo (boccette ao parmetto) e di tutti gli altri giochi legati all'uso delle ambite sferette. Si potrebbe pensare che molte di quelle palline siano ancora sparse nei cassetti, luccicanti e ben levigate, pronte per essere usate in nuove imminenti partite da tanti giocatori del passato.
Sulla terra battuta delle piccole stradicciole era facile incontrare scolaretti appena usciti da scuola che, dopo aver lasciato le cartelle di stoffa pesante contro un muro, iniziavano il gioco delle biglie.
Ognuno aveva il suo sacchetto ricolmo di sferette, più o meno pregiate, e chi prima urlava: primo ao gaicio, primo a triangolo, darè a boccette ao parmetto (io voglio essere il primo nelle biglie in buca, primo anche al triangolo, e per ultimo alle biglie al palmo), seguendo un ordine tradizionale di uso e consuetudine, aveva la priorità di inserirsi nei giochi consueti nella posizione più vantaggiosa.
Per le biglie in buca (o gaicio), bisognava far entrare la propria biglia in una delle buche (la tana) precedentemente preparate (di solito si sceglieva uno spiazzo di terra dove si scavavano buche del diametro di più o meno una spanna).
Molte infatti erano le buche scavate nel terreno. Ogni giocatore aveva a disposizione un numero definito di biglie. Il totale veniva distribuito nelle buche, in quantità calcolate e memorizzate. A turno, ciascuno tirava verso le buche una biglia, stando sulla linea di partenza, che veniva tracciata a una certa distanza dalle piccole cavità. Se il giocatore riusciva a far entrare la biglia in buca, si appropriava di tutte le biglie che erano in essa contenute e riprendeva la sua.
Se ciò non accadeva si perdeva la biglia che sarebbe stata posta poi nella buca alla quale si è fermata più vicina. Vinceva chi accumulava un numero maggiore di biglie.
Anche le biglie, contenute nelle bottigliette di gazzosa, strano omaggio delle fabbriche di bibite per rendere popolare questa succosa bevanda zuccherina fra i ragazzi, avevano un grande e speciale fascino. Per la verità le biglie delle bottigliette non si sarebbero dovute neppure tenere perché il vuoto era a rendere e il vetro era riutilizzato dai rivenditori per imbottigliare altra gazzosa.
Molti di questi recipienti non son mai più riapprodati alle Ditte per essere riutilizzati perché il vetro esterno era sacrificato per la raccolta delle desiderate "verdinn-e", le sferette di un bel colore verde che occhieggiavano invitanti dai bagliori del vetro smerigliato.
Sul mercato dei cambi tra possessori di biglie, una "verdinn-a" valeva come due palline di terracotta ed era veramente impossibile rinunciare all'impresa di procurarsela rompendo la bottiglietta, pur sapendo di rischiare una sgridata e, occasionalmente, anche uno scapaccione della mamma che si raccomandava, ogni volta e inutilmente, di riconsegnare il vuoto per recuperare i pochi spiccioli, che ne determinavano il deposito.
Il gioco del triangolo, dunque, si poteva organizzare con le verdinn-e delle bottiglie di gazzosa, ma anche con qualsiasi altro tipo di materiale diverso.
Si giocava in tre: si disegnava un triangolo per terra e ogni giocatore metteva su uno solo dei tre vertici una sua biglia e si cominciavano i tiri di conquista. Si sceglieva un muro e si lanciava contro di esso un'altra biglia ciascuno. Chi dei tre imprimeva alla sua pallina il rimbalzo più lungo aveva diritto di tentare un tiro per colpire la sferetta di un avversario. Se la biglia colpita usciva dal triangolo veniva conquistata dal tiratore mentre se entrava all'interno era il tiratore stesso che perdeva la propria.
A questo punto ognuno, in base ai tiri vittoriosi o meno, doveva rimpiazzare con un'altra pallottolina il vertice rimasto vuoto e così si andava avanti nella speranza di incrementare il proprio bottino.
Qualche bambino, tirando e misurando con il palmo della mano giocava anche alle biglie al palmo (boccetto cou parmetto). Si poteva vincere la biglia del compagno dopo aver accumulato tanti punti, ottenuti misurando col palmo della mano la distanza tra le biglie, esprimendo poi con enfasi la gioia per la vincita con alte esclamazioni, quando la misura ottenuta era inferiore a quella della spanna.
Le biglie, o meglio "e balee", come erano definite nel dialetto locale, erano la vera consistenza patrimoniale dei piccoli giocatori.
Le biglie erano care; avevano un costo di alcuni centesimi e quindi bisognava tenerle con grande attenzione e averne cura come fossero oggetti di valore; meglio vincerle, se si poteva!
Alla fine delle sfide, sempre molto lunghe e dibattute, tutti contavano il numero delle proprie sferette e si potevano arguire, dall'espressione del viso e dalle sonore e argentine esclamazioni, le perdite o i guadagni dell'impresa.
Tornando a casa con le tasche gonfie di palline colorate il percorso sembrava più lieve e intenso di gioiosa ilarità, quando il peso della vittoria gonfiava d'orgoglio non solo le tasche ma anche il cuore.



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