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Kaleîdos

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Numero 13 del 2025

Titolo: Uomini che riparano il male

Autore: Enrica Brocardo


Articolo:
(da «F» n. 27-2025)
C'è un centro a Milano per recuperare autori di violenza e stalking. Che prima negano le colpe, poi cominciano a rendersi conto, capiscono. Si pentono anche? Forse no. Ma una cosa è certa: quasi mai tornano a colpire. «F» li ha incontrati
Il nome istituzionale è «Presidio Criminologico Territoriale». Quello del Comune di Milano è circondato da palazzi residenziali: chissà se chi abita qui è al corrente del via vai di uomini condannati per stupro, violenza, molestie. A gestire il centro è il Cipm (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione), la prima cooperativa a seguire progetti di questo tipo. Oltre a organizzare con la Regione Lombardia il Progetto Uomo, ossia percorsi di recupero per autori di violenza, il centro lavora sulla prevenzione con il protocollo Zeus, in collaborazione con la questura di Milano, e tiene laboratori all'interno delle carceri per i casi più gravi, femminicidi compresi.
È stata la vicepresidente di Cipm, la criminologa Francesca Garbarino, a organizzare per me gli incontri con uno stalker e con un autore di violenza domestica. Sulla porta del centro c'è un volantino con scritto: «Violenza? Conflitti? Stalking? Hai bisogno di aiuto?». E sotto un numero verde: 800-667733. Scopro nelle ore successive che quasi nessuno degli uomini trattati qui si è fatto avanti spontaneamente.
Il primo colloquio
«Tutti arrivano per convenienza, perché in cambio ottengono una sospensione della pena o una misura alternativa al carcere. All'inizio negano le proprie colpe e spostano le responsabilità sulle vittime. Sta a noi operatori far sì che la domanda di aiuto diventi autentica», spiega Garbarino. Serve uno spiraglio anche minimo, insomma, su cui lavorare. Per questo, prima del trattamento con riunioni di gruppo guidate da un criminologo e da uno psicologo, si comincia con i colloqui individuali. Come quello che si svolge nella stanza qui a fianco, e di cui cerco di carpire qualche passaggio con scarsi risultati, anche perché nel frattempo è arrivato il «mio» stalker. Non so niente di lui e gli accordi prevedono che non possa avere accesso ai fascicoli giudiziari sul suo caso. L'uomo ha una cinquantina di anni, non mi dice che lavoro fa, ma parla di un ufficio e di una scrivania, quella dove anni prima si era visto recapitare la prima notifica giudiziaria dopo la denuncia per stalking.
«Non ci vedevo nulla di male»
Dice di far parte del programma ormai da tre anni e mezzo anche perché, con due recidive pesanti, ha rischiato di finire in carcere. Per quattro anni dopo la fine della loro relazione, racconta, ha continuato a contattare la sua ex, nonostante lei gli avesse detto in ogni modo di non volerlo più sentire. Controllava i suoi social media, le scriveva su WhatsApp, Messenger, le inviava email. «Non erano mai messaggi violenti o minacce, non ci vedevo nulla di male. Ci sono volute le denunce e la partecipazione a questo programma per farmi capire che continuare a cercare qualcuno che non vuole avere a che fare con te può innescare in quella persona malessere, angoscia, persino terrore».
Parliamo per un'ora, ma mentre lui ricorda episodi e dettagli, non riesco a far meno di pensare che non mi stia dicendo tutta la verità e che il suo sia più stupore che pentimento. La convinzione che sì, magari ha esagerato: «Ho preso atto della mia incapacità di accettare la fine, non solo nelle relazioni». Sotto sotto, però, non si capacita di aver avuto la sfortuna di incontrare una donna che per far valere le proprie ragioni è ricorsa alla giustizia: «Era già successo con altre ex, ma loro non mi avevano denunciato».
I sensi di colpa verso le figlie
Il secondo uomo entra e si siede davanti a me. È sulla quarantina, ha un fisico muscoloso e parecchi tatuaggi. La sua compagna lo ha denunciato due volte per violenza ed è stato condannato a due anni con la sospensione della pena. Per lui si tratta del secondo percorso antiviolenza. «La prima volta sono venuto volontariamente su consiglio del mio avvocato, la seconda per imposizione del giudice». Racconta di aver avuto un'infanzia e un'adolescenza difficili in un quartiere popolare della periferia di Milano, con un padre violento che picchiava lui, sua sorella e sua madre. Però non sembra cercare giustificazioni per aver reso la vita della compagna e delle loro due figlie un inferno di urla e mobili spaccati a pugni. E per aver lasciato cicatrici profonde anche nella vita di un'altra donna, con cui aveva avuto per quattro anni una storia parallela. «È stato quando la mia compagna lo ha scoperto che la situazione è precipitata. Lei voleva chiudere, io non riuscivo ad accettarlo. Intanto l'altra mi ha lasciato». Anche a lei è toccato subire la sua rabbia. «Ho spaccato a calci il finestrino della sua auto con lei dentro «terrorizzata, un'altra volta mi sono presentato dove lavorava minacciando di picchiare tutti. Mi fa ancora male pensarci, vorrei chiederle scusa. L'unica cosa che ancora mi porto dentro di quel periodo sono i sensi di colpa. Sono sempre stato un padre presente, ma so che le mie figlie hanno sofferto».
Ridurre le recidive
Quando esce per raggiungere il gruppo, rimango nella stanza con in testa dubbi e domande. Come si fa a capire se una persona è davvero pentita? E se non lo è, vuol dire che potrebbe farlo di nuovo? Mi risponde Francesca Garbarino: «Cambiamenti profondi in tutti questi anni ne ho visti pochi. Ma il nostro obiettivo è un altro: far sì che capiscano di aver fatto del male e ridurre le recidive. Che, secondo alcune ricerche internazionali, si aggirano intorno al 65 per cento, mentre tra gli uomini seguiti dal Cipm ci risulta che solo il 2-3 per cento abbia commesso di nuovo lo stesso tipo di reato».
Scrivere questo articolo mi è costato fatica. Perché mi sono resa conto di non avere un punto di vista, una sembianza di verità. Ad aiutarmi, le parole che il secondo uomo ha detto alla fine del nostro incontro, ricordando le esplosioni di rabbia che aveva fin da ragazzo: «Nessuno mi ha mai insegnato come ci si comporta. Ci vorrebbero corsi nelle scuole per spiegare l'uguaglianza, il rispetto. Ti insegnano la storia, la geografia, ma non a gestire le emozioni». Forse è proprio lì il punto. Trattare gli uomini violenti e fare il possibile per evitare che facciano di nuovo del male a qualcuno è doveroso. Ma bisogna anche investire nella crescita di uomini nuovi.
Enrica Brocardo



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