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Il Progresso

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Numero 11 del 2019

Titolo: Attualità- Quella vita di odio e amore con il nemico dentro casa

Autore: Dacia Maraini


Articolo:
(da «Corriere.it» del 22 maggio 2019)
La storia di Deborah, che ha ucciso il padre, è la storia di una violenza quotidiana, da cui non è possibile tornare indietro. È la storia della morte della fiducia, una storia simile a tante di cui non sappiamo perché non vengono raccontate
Quando il nemico si trova in casa i sentimenti che suscita la violenza sono contraddittori. Come non amare un padre che ti ha portata in braccio, che ti ha accompagnata a scuola tante volte, che ti ha fatto ridere giocando a nascondino con te bambina?
L'amore, la confidenza, le abitudini familiari, hanno radici profonde e non è facile strapparle dalla memoria di un corpo che cresce. Eppure quel padre che tante volte ti ha abbracciata e baciata, che tante volte ti ha sorriso con amore, quel padre può trasformarsi in un nemico pericoloso. Lo raccontano le cronache. Quel padre amoroso può diventare, per un accumularsi di frustrazioni, di stanchezze, di delusioni, di rabbie, di paura, in un alcolizzato che alza volentieri le mani su moglie e figli.
Come difendersi? Come fermare quella mano diventata improvvisamente nemica? E non sono solo le bambine a subire le aggressioni di un padre manesco ma spesso anche i bambini. Ricordo che Pier Paolo Pasolini ha raccontato di avere assistito a una simile trasformazione e di essersi alleato con la madre, moltiplicando le rabbie e le frustrazioni del padre.
La violenza comunque, una volta innestata in un cuore impaurito e debole, non torna indietro. Ci saranno parole di pentimento, ci saranno giuramenti di mai più usare le mani, ma purtroppo gli abusi torneranno dopo qualche bicchiere di alcol e saranno sempre più ciechi e rabbiosi. Le donne spesso non denunciano, perché credono a quelle promesse, perché il sentimento che una volta hanno provato, le porta verso una indulgenza ingenua e dolorosa. La conseguenza più brutta della violenza in famiglia è la morte della fiducia, la nascita del sospetto e il bisogno di affidarsi a strategie da prigionieri. I bambini picchiati crescendo, o tendono a ripetere i gesti paterni su quelli che a loro volta diventano più deboli o si trasformano nei peggiori nemici di se stessi. Non stimandosi, fanno sì che neanche gli altri li stimino.
Nel caso della ragazza di Monterotondo, tutto questo è saltato. Per la semplice ragione che lei ha studiato pugilato e quindi sapeva dare pugni in modo da fare male. Certamente non voleva uccidere il padre ma solo fermarlo. E non è colpevole se l'uomo non ha resistito alla forza di un suo pugno. È già molto che la ragazza non lo abbia fatto prima. Ora lei piange sul padre morto. E la capiamo, perché nonostante tutto, quell'uomo ha condiviso tante esperienze certamente anche belle con la figlia bambina e lei non riesce a dimenticare. Non è un estraneo che si affronta con indifferenza ma carne della tua carne e certamente, nonostante le devastanti trasformazioni, un nocciolo di amore e tenerezza è rimasto in quel cuore ferito. Nello stesso tempo qualcuno potrà pensare che lui se l'è meritato. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Non immaginava che la figlia l'avrebbe superato in fatto di pugni. Verrebbe da dire alle tante mogli e ai tanti figli che vengono quotidianamente picchiati in famiglia: andate in palestra, imparate a dare pugni. Non per uccidere, ma per spaventare chi crede solo nel linguaggio dei muscoli.



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